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Quercianella

IL CASTELLO
Introduzione Le guide Il castello del Romito e il ministro Sonnino Il paese, le pensioni, i villini La stazione I bagni e il mare Archeologia Nuvolari

...dalla Costa Fiorita di Quercianella

a cura di Luigi Ciompi
Edizione Stella del Mare Livorno, 1991

LA LEGGENDA DEL ROMITO

La vecchia Strada Maremmana, di la' da Antignano, passava anni sono proprio sulla scogliera del lido; pestava i banchi di rena e gli ammassi d’alga lasciati in dono alla terra dal continuo andirivieni delle onde, era stretta e piena di pericoli per le Diligenze che fanno giornalmente il viaggio delle Maremme; ma una nuova strada fu tagliata nel sasso vivo dei macigni che sovrastavano alla vecchia; e' larga, comoda, ben selciata, e facilita le comunicazioni con un Paese che spera dal commercio e dalla coltivazione un avvenire migliore del suo passato. La solitudine di quella parte di littorale e' pittoresca; ogni svoltata offre un nuovo punto di vista, e le antiche torri custodi della costa crescono interesse alla scena. Mentre l’immensita' del mare riempie di se' l’occhio e il pensiero del passeggiatore, e l’uno e l’altro spaziando sopra i suoi abissi, dimenticano la terra, rappresentata in quel sito da rupi nerastre, vestite appena qua e la' da qualche ciuffo d’erba ingiallita dal sole, ecco che a una svoltata, la vista improvvisa d’una torre, richiama i due girovaghi alla memoria dei nidi umani. Quelle torri stanno li' ridotte all’unico uffizio di far rispettare le Leggi di Sanita', e d’impedire il contrabbando. Io credo, che il genio della meditazione e della mestizia, non potrebbero scegliere asilo piu' adattato delle tortuosita' di quel lido, per godervi il libero e dolce fantasticare dei suoi pensieri. Poco al di sotto della Villa Gamba abitata molti anni sono dall’illustre poeta e storico Smollet, la scogliera s’apre formando un seno dentro cui il mare entra placidissimo, e va a lambire la ghiaja del lido come ospite riconoscente della ricevuta accoglienza. Le ore passano inosservate per chi siede sullo scoglio custode dell’entrata del piccolo seno, e leggendo, meditando, o scrivendo, volge ogni tanto l’occhio alle barche lontane dei pescatori Antignanesi, mentre i loro canti arrivano al suo orecchio portati dall’aura aleggiante sul limpido cristallo delle acque. Vada pure la schiera degli amici dei tumultuosi piaceri a godersi l’Ardenza, io invito quelli della solitudine e della gentile mestizia a preferire il lungo mare della Via Maremmana. La prima e la seconda torre escono quasi dal seno del mare; la terza detto il Romito, non e' fabbricata sulla scogliera, ed ha per conseguenza la strada a destra. E’ grande e ben provveduta di mezzi di difesa adattati ai tempi, nei quali era necessario pensare a preservare il Littorale non dai contrabbandieri e dagli sbarchi clandestini soltanto. Si chiama il Romito, forse per la posizione veramente romita, forse in memoria dell’Eremita che due secoli fa abitava nelle sue vicinanze, ed era possessore di un Crocifisso riputato miracoloso; o fors’anche trae il nome da una Cronaca di data assai remota, che trasmessa da padre a figlio, e scritta nell’italiano del tempo di Carlo VIII, rimase inedita negli archivi d’una famiglia di possidenti dei Colli Pisani. Avendone ottenuto un sunto da persona, ch’ebbe la fortuna di vederla, io m’ingegnero' di farne parte ai miei cortesi lettori. La discesa di Carlo VIII in Italia e l’odio suo per i Fiorentini, stati sempre avversi a prendere il nome di suoi vassalli, avevano ridestato nei Pisani le mal sopite speranze di liberta'; e quando il re venne a Pisa, e il presidio Fiorentino abbandono' la Cittadella in bali'a dei Francesi, il popolo figurandosi che il non aver piu' padroni Fiorentini significasse essere tornato libero e grande, eruppe in tali e tanti trasporti di allegrezza, che Re Carlo ne fu meravigliato e commosso, e promise partendo di non rimettere Pisa sotto il giogo dei suoi odiati vicini. Ernesto D’Estrangues fu eletto Comandante delle truppe Francesi rimaste a presidiare la Cittadella. Egli era giovine e d’animo bollente; Gabriella Lante era la piu' leggiadra delle nobili fanciulle di Pisa, e il Comandante Francese appena l’ebbe vista, si senti' preso da ardentissimo amore. Gabriella era una di quelle creature entusiastiche, nelle quali il cuore parla sempre e il criterio o mai o molto di rado; amava il suo paese, odiava a morte i Fiorentini, e tutti i mezzi le parevano buoni e leciti per fare che l’arme coi gigli rossi in campo bianco, fatta in pezzi e bruciata dai Pisani alla venuta di Carlo VIII non fosse rialzata sulla porta della Cittadella e degli uffizi governativi. Suo padre e suo fratello avevano alimentato il fanatismo patriottico della giovinetta, e ora favorivano la passione del Comandante Francese, estimandola utile alla salvezza della patria. La fede di Re Carlo non godeva di buona reputazione, e gia' si andava vociferando avere egli stipulata la restituzione di Pisa, e mancare appena pochi giorni all’arrivo dei Commissarii mandati dalla Repubblica Fiorentina a riprenderne possesso. D’Estrangues poteva da un momento all’altro ricevere l’ordine di sgombrare dalla Cittadella co’suoi soldati, e i poveri Pisani si figuravano che un suo rifiuto basterebbe a conservar loro la liberta'. Gabriella aveva detto, che stante la sua risoluzione di non diventare mai moglie d’un uomo, che fosse capace di servire d’istrumento a rimettere Pisa nelle mani dei Fiorentini, D’Estrangues piuttosto che rinunziare alle nozze desiderate, ricuserebbe di obbedire anche ai comandi del Re; lo aveva detto al padre, al fratello, alle amiche, ai magistrati che conferivano seco lei sul conto da farsi del buon volere del Comandante Francese. Veramente D’Estrangues non era padrone di se medesimo, e quando il Tentaville esci' da Livorno, ed egli avrebbe dovuto fare altrettanto da Pisa, vi rimase colle sue genti, pretestando di non aver ricevuti i contrassegni necessari alla regolarita' dell’ordine, Pisa intanto enumerava le sue forze cittadine, e preparava le sue difese, ma ne' le une ne' le altre bastavano all’uopo. Gli uomini di senno ritenendo per cosa impossibile lo andare avanti, non dividevano l’allegrezza di Gabriella e della gioventu' esaltata al pari di lei, che la proclamava salvatrice della patria, mentre D’Estrangues ebro d’amore non aveva tempo ne' voglia di riflettere alle conseguenze del suo rifiuto. Dopo pochi giorni il Re mando' i suoi contrassegni; ne' v’era piu' modo di continuare in quello stato di cose. I Fiorentini insistevano, il Re comandava; D’Estrangues era soldato, aveva accettata una consegna, si trattava di dichiararsi ribelle, di disonorarsi; giusta o ingiusta che fosse la cessione, egli non aveva diritto di revocarla. Lo spettro del disonore si alzo' nel silenzio della notte dinanzi all’anima sua contrastata, e l’immagine della bellissima Lante si copri' momentaneamente di un velo!.. Il Comandante vide e misuro' il pericolo della sua posizione, tremo' della sovrastante infamia, e alzatosi impetuosamente dal letto, scrisse ai Fiorentini: Pisa e' vostra, venite a prenderne la consegna. Un messo portatore del dispaccio parti' immediatamente per Firenze; D’Estrangues diede ordine alle sue genti di prepararsi a partire, e per due giorni consecutivi non esci piu' dalla Cittadella. La fama dei preparativi si sparse fra i Cittadini e arrivo' fino a Gabriella, che la tenne in concetto di una favola inventata dal mal volere dei nemici di Pisa. Ma ben tosto il padre, il fratello, gli amici, vennero desolati a persuaderla del contrario. Essa svenne, due strali acutissimi avevano trafitto il cuore della fanciulla: la patria rimetteva il collo sotto il giogo di Firenze, e D’Estrangues si era liberato da quello impostogli da’ vezzi suoi! Quando le torno' l’uso dei sensi, i parenti e gli amici l’avevano lasciata alle cure delle sue donne, andando a discutere in una adunanza di Cittadini, le risoluzioni da prendersi in quel frangente supremo. Gabriella si alzo', si ravvolse in un ampio velo, prese con se la piu' fida delle sue ancelle, e a passi precipitosi si diresse verso la Cittadella. Molti per via la incontrarono e la conobbero, ma nessuno la fermo', nessuno le fece onore. I Pisani avevano gia' perduta la fiducia nella potenza dei suoi begli occhi! Arrivata alla porta della fortezza, Gabriella con voce ferma e risoluta, chiese di parlare al Comandante; le guardie riconosciutala, sorridendo le additarono cortesemente il luogo di sua dimora, e verso quel loco la fanciulla speditamente s’incammino'... Un servo precedendola, l’annunzio' a D’Estrangues, e si ritrasse tosto che essa fu nella stanza. Il Comandante Francese sedeva scrivendo; al nome di Gabriella un fuoco gli corse per ogni vena, un fuoco che ardeva tacito negli intimi recessi del cuore, e in quel momento torno' a divamparsi in incendio. Gabriella gli si accosto', piego' un ginocchio a terra, e alzando gli occhi divini pregni di lacrime al viso dell’amante: - Pieta' di Pisa, disse, con un tuono di voce pieno di tutto quel gentile incanto di cui puo' vestirsi la preghiera sulle labbra d’una donna diletta. - Pieta' de’ suoi Cittadini, della mia famiglia, di me!! D’Estrangues immobile, la stava contemplando; la penna gli era caduta di mano, e aveva per forza d’attrazione chinato il viso verso quello della supplicante. Non pensava a muoversi, a rialzarla, ma i suoi sguardi esprimevano, che il lasciarla in una posizione umiliante, non era prova d’orgoglio o di poco amore, ed essa anzi leggeva in quelli sguardi, e in quell’oblio delle convenienze sociali, la prova del riacquistato imperio, la sicurezza del trionfo. La porta si apri' all’improvviso, un Ufficiale del presidio si affaccio' nella stanza, e: - Comandante, grido', i Fiorentini sono sotto le mura! - I Fiorentini! esclamarono al tempo medesimo D’Estrangues e la fanciulla; l’uno con l’accento del dolore, l’altra con quello della disperazione. - I vostri ordini, Comandante, soggiunse l’Ufficiale. - “Dateli”, grido' Gabriella alzandosi in atto di dignitosa fierezza, “dite che spalanchino le porte ai nostri carnefici, accoglieteli, festeggiateli; io, mio padre, mio fratello, e quanti sono in Pisa capaci di anteporre la morte alla servitu' morremo prima di cadere nelle loro mani”. Cio' detto si mosse per escire. D’Estrangues la trattenne, e con voce tremante oso' ricordare essere egli suddito e soldato, e percio' costretto alla consegna della Citta' e della fortezza. “Obbedite, replico' Gabriella, la maledizione di Dio sta gia' sul capo di Carlo, compite la misura dei suoi misfatti, sacrificate un popolo che fida in voi, ajutate i Fiorentini a rialzare i patiboli”. In quel momento s’intesero molte grida dalla parte della Citta'; era il popolo che chiedeva di escire in armi contro i Fiorentini; il furore e la disperazione gli avevano restituito momentaneamente l’antica energia; i vecchi medesimi s’erano rivestiti dell’armatura dimenticata gia' da tanti anni.
D’Estrangues, accostandosi a Gabriella: “Senti, (le disse) i Fiorentini sono venuti chiamati da me, ed io gli ho chiamati perche' il farlo era mio dovere; se permetto che sieno assaliti dai tuoi concittadini, mi fo reo d’un tradimento codardo, e di un atto di ribellione... vuoi tu che ti sacrifichi l’onor mio? dimmi Gabriella, lo vuoi?” Gabriella non aveva mai calcolato la differenza che passava fra i doveri di una cittadina di Pisa, e quelli del Comandante di un presidio forestiero. A parer suo, l’onore tanto per lei, quanto per D’Estrangues, e per tutti gli uomini della terra, consisteva nel liberar Pisa dai Fiorentini, nell’assisterla a esterminarli: percio' senza scrupolo e senza rimorso, impiego' tutta la potenza delle sue attrattive per indurre lo sfortunato Comandante a non impedire al popolo in armi l’escita dalla citta'. - Fu un permesso strappato alle sue labbra ebbre del veleno succhiato su quelle di Gabriella, nel primo bacio d’amore... bacio ahime! pagato poi a troppo caro prezzo! I Fiorentini non ressero all’assalto inaspettato, e fuggirono disordinatamente verso Firenze; i Pisani ritornarono in citta' lieti e superbi della facile vittoria. Gabriella dall’alto del balcone del palazzo paterno, vide i reduci incamminarsi verso la Cattedrale per deporvi le armi e le bandiere dei fuggitivi; ... fu salutata salvatrice della patria, e si abbandono' ai trasporti d’una gioja inconsiderata. D’Estrangues frattanto leggeva un foglio del Tentaville (il Capitano Francese che aveva consegnato Livorno ai Fiorentini): “Fuggi subito, (gli scriveva) o morrai della morte dei traditori”. Gia', appena Gabriella fu lontana dagli occhi suoi, accorgendosi d’essere precipitato in un baratro senza fondo, egli aveva portata la mano sulla sua spada per darsi la morte, ma, oime'! come abbandonare un mondo in cui Gabriella rimarrebbe senza di lui, e potrebbe fare un altro amante beato dell’amor suo! Questa idea gli fermo' la mano. Ebbe poi per un momento quella di trascinarla seco sotterra, ma l’istinto generoso dell’ animo la respinse lontano da se': “Essa non si e' disonorata, esclamo', essa puo' vivere!” Progetto' in seguito di fuggire con lei in qualche paese lontano, e godervi nella solitudine le caste gioje d’un amore corrisposto. L’immagine della prole a cui lascerebbe per unico retaggio, la miseria e l’obbrobbio, lo distolse dall’eseguirlo… e finalmente ricorse ad un mezzo termine, solito appiglio di chi costretto a risolversi ripugna dai partiti definitivi. Esci' dalla Cittadella di notte, solo, senza avere riveduto Gabriella, senza averle dato avviso del dove anderebbe, e probabilmente ignorandolo egli medesimo. Pochi mesi dopo si sparse voce che un Eremita si fosse stabilito in riva al mare, lungo la costa della via Maremmana in cima a quell’erta su cui molti anni dopo fu fabbricata la torre del Romito. La gente dei contorni era persuasa che quel galantuomo vivesse in quell’arida solitudine, immerso nella meditazione, e nella preghiera, col corpo sulla terra e coll’anima gia' distaccata dai pensieri terreni! Pisa intanto era ricaduta sotto la tirannide della sua nemica; i Francesi si erano allontanati dal suo territorio, e contro D’Estrangues, reo contumace, era escita sentenza di morte e d’infamia. La bella Lante ritirata in un Castello poco lontano da Monte Massi, piangeva la schiavitu' della patria, e le sciagure dell’amante, di cui ignorava il destino. Il padre e il fratello dividevano seco la mesta solitudine di quell’antico feudo della loro famiglia. Circa due anni dopo la scomparsa del Comandante Francese, in una gelida notte di Gennajo, fu bussato forte forte al Castello dei Lante. I servi dopo essersi assicurati che la persona bussante era sola, le apersero, e si videro davanti un monaco Agostiniano, di quelli dell’Eremo di S. Jacopo d’Acquaviva. Domando' del padrone di casa, e il padre di Gabriella si alzo' subito dal letto, scese in una sala terrena dove il Monaco l’aspettava, e inchinandosi riverente, lo interrogo' sul motivo che lo aveva condotto a casa Lante in mezzo al gelo di quell’ora notturna. Il monaco gli narro' che un eremita, abitatore delle rupi della via Maremmana, lo aveva fatto chiamare a se', che egli era subito accorso presso di lui, e aveva trovato un moribondo sfigurato dalle lunghe austerita' e dal male; aggiunse che gli era riuscito impossibile lo indurlo a riconciliarsi con Dio, perche' il suo spirito vagava lunge dal sentiero della salute; che finalmente il moribondo si era lasciato cadere alle sue ginocchia e abbracciandole: Padre, gli avea detto con voce soffocata dal rantolo dell’agonia, se non riveggo Gabriella, io spirero' maledicendo la morte, e sento che si avvicina; padre, salvate l’anima mia! Correte a Casa Lante vicino a Monte Massi, dite a suo padre di condurmela;... Il desiderio immenso e la speranza mi alimenteranno la vita fino al vostro ritorno, andate e dite che vi manda Ernesto D’Estrangues. A questo nome, il vecchio Lante trasali'; conteneva un cumulo di memorie funeste, e il padre di Gabriella aveva sperato di non udirlo pronunziare mai piu'; ma la coscienza gli comandava di obbedire all’ultima volonta' di un moribondo... Lascio' il frate nella sala, e ando' egli medesimo a destare Gabriella, e a farla avvertita della necessita' di alzarsi e prepararsi a montare a cavallo col fratello e con lui. La fanciulla, quando la voce del padre venne a riscuoterla dal sonno, sognava l’amante perduto; le pareva che la chiamasse da un luogo inaccessibile, ed ella affannandosi per salire fino a lui, sdrucciolando cadeva, e i sassi e le spine le laceravano i piedi e le mani, mentre egli continuava a supplicarla perche' salisse. Provo' meraviglia all’annunzio della partenza: “Dove anderemo noi?” domando' – “Dove ci chiama un’opera di misericordia” rispose il padre. Un quarto d’ora dopo, la piccola comitiva era a cavallo, il monaco cavalcava innanzi agli altri per servire di guida. Gabriella gli si accosto' e – “Mi pare che ci conduciate verso il mare, gli disse, veggo brillare innanzi a noi il faro del porto” – “Andiamo infatti verso il mare, rispose il monaco, e Dio voglia che arriviamo in tempo”. Il viaggio riesciva faticoso per la neve, per i burroni profondi; finalmente raggiunsero il mare, e s’inoltrarono lungo il lido. Un vento gelido percuoteva la faccia dei viaggiatori; le onde mandavano un cupo muggito, e un fioco raggio di luna trapelava ogni tanto nella nera cortina di nuvole, squarciata qua' e la' dalla tramontana. Il monaco si fermo' e scese da cavallo; i suoi compagni fecero altrettanto, e legati i cavalli al tronco d’un pino, salirono dietro di lui un sentiero irto e anche scosceso. Gabriella saliva, muta e tremante. La solennita' delle poche parole pronunciate da suo padre e dal frate, l’averla fatta escire di casa in mezzo alle tenebre e al gelo di quella notte, erano circostanze che preparavano l’animo della fanciulla a qualche cosa di straordinario, di tremendo; e siccome l’immagine D’Estrangues si mescolava a tutti i suoi pensieri, cosi' s’intrometteva anche a quelli relativi ai casi di quella notte. Finito ch’ebbero di salire, il monaco si fermo', e: “Vive ancora, (disse volgendosi al vecchio Lante), recitano le preghiere degli agonizzanti”. In quel momento un eco di voci flebile e lamentoso arrivo' all’orecchio' di Gabriella unito al sibilo acuto del vento. - “Chi e' che vive ancora? oh ditelo, ditelo!” esclamo'. – “Un infelice, rispose il monaco, - entrate - e aperto l’uscio della capanna, v’introdusse i suoi tre compagni”. Gabriella vide due frati, che pregavano a voce bassa accanto a un giaciglio nel fondo della capanna. Il fioco lume d’una lampada ondeggiava mosso dal vento, ora lasciando gli oggetti in una profonda oscurita', ed ora accrescendone le proporzioni, col gettarvi sopra uno splendore improvviso. Il conduttore dei Lante si accosto' al giaciglio, si chino' sulla Creatura chi ci stava lottando colla morte, e: “Fratello, le disse, il Signore vi ha esaudito, io non sono tornato solo”. La voce del monaco, produsse sul moribondo un effetto meraviglioso. Egli si alzo' a sedere, si guardo' d’intorno con occhio ardente di vita, di speranza, di desiderio. – “Gabriella!” disse con voce alta e chiara. – “Son qui” - intese rispondersi da quella voce, che da due anni non risuonava piu' al suo orecchio, senza avere mai cessato di risuonargli nel cuore. – “Ernesto, son qui'!” Il morente si alzo' in piedi, e i tre Lante, al lume tremulo della lampada si videro in faccia lo scheletro del gia' Comandante Francese. -“Grazie, padre mio!” disse stendendo la mano scarna al monaco; - “Signori, (soggiunse poi, volgendosi ai due cavalieri Pisani) voi mi ritrovate alquanto diverso da quello che io mi fossi due anni fa! e tu, Gabriella...(e fisso' gli sguardi sopra di lei) tu devi mal riconoscermi... tu sei bella, divinamente bella, come nei giorni del nostro amore! mentre io sono lo spettro di Ernesto!... tu puoi vivere e godere, io ho sofferto e muojo! Ti feci il sacrifizio dell’onor mio, resta a sapersi se tu chiedendolo eseguisti o tradisti i dettami del tuo; se hai di che lodarti o piangere per il tuo operato - Eri cittadina di Pisa, e' vero - ma eri anche l’amante di D’Estrangues - Io non posso farmi tuo giudice, lascio il giudizio alla tua coscienza, ai posteri, a Dio! - Privo del mio onore, privo di te, io non posso vivere; tu che presiedesti al mio destino, tu che di lieto lo hai cangiato in funesto, vieni ora a presiedere al mio momento supremo. I miei conti coll’Eternita' sono fatti, mi rimane a farli con te, co’ tuoi parenti... Tu, giovine inesperta non sapevi in che consistesse l’onore di un soldato, essi dovevano saperlo, e non persuaderti di far bene calpestandolo; perche', o signori, (e cosi' dicendo si rivolgeva al padre e al fratello della fanciulla) se i fatti disonesti disonorano chi li commette, neanche danno gloria a chi se ne fa istigatore. Pisa e' tornata alla sue catene, e voi le deste appena pochi giorni di liberta', a costo dell’onor mio; dividete ora l’obbrobrio del suo servaggio; la morte viene a liberare la vostra vittima dall’infamia!” -Queste ultime parole escirono a stento dalle fauci dello sfortunato Comandante... barcollo' e cadde sul letto... Gabriella e i suoi parenti erano rimasti come colpiti dal fulmine; i tre monaci s’inginocchiarono, e ripresero a recitare sotto voce le preci degli agonizzanti. Egli muore! grido' Gabriella, che l’eco di quelle preci aveva riscossa dallo sbalordimento - egli muore! e non mi ha perdonata! La sua voce arrivo' al cuore D’Estrangues anche in mezzo agli spasimi dell’agonia: “Si, si', disse, io... ti... ho perdonata, io... ti..” non altro soggiunse; le sue labbra si chiusero, lasciando a mezzo la manifestazione del suo pensiero. Forse nel giorno del gran giudizio, si riapriranno per compirla; fino a quel giorno la voce di D’Estrangues non aggiungera' sillaba a quell’io ti... pronunziato mentre il cuore batteva l’ultimo tocco. - Ahi! la morte! orrore! disperazione! a chi la vide invadere le sembianze d’una creatura diletta; a chi pose la mano sul petto stato fino a quel momento suo sostegno, suo asilo, e lo senti' muto, freddo! Gabriella non tramorti'; i dolori mediocri tolgono l’uso dei sensi, il dolore che ferisce di ferita mortale, centuplica le forze vitali per centuplicare lo strazio. Il padre e il fratello condussero via la sfortunata fanciulla, che impresso un bacio sulla fronte del morto, li seguito' docile rassegnata. Otto giorni dopo, entro' in un convento, e nel giorno anniversario della morte di D’Estrangues, rese anch’essa l’anima a Dio. Lo aveva amato da prima, colla leggerezza del sesso e dell’eta', poi colla compiacenza della vanita' soddisfatta. - Quando egli scomparve da Pisa, il suo amore divento' un sentimento pieno di mestizia e di rimorsi, scevri di pentimento, perche' essa non poteva pentirsi d’aver tentato di salvare la patria dal giogo dei Fiorentini. - Dopo che D’Estrangues fu morto, senza potersi persuadere d’aver mal fatto, desiderava soffrire in espiazione dei dolori sofferti dal suo amante, e morire per riunirsi a lui nel grembo della Eternita'!

(Angelica Palli, “Cenni sopra Livorno e i suoi contorni”, 1856).


IL ROMITO

Ne' pensiamo dover tacere di una pietosa leggenda di amore che ha relazione con le pittoresche e solinghe pendici del Monte Livornese, nel luogo detto il Romito.
Quando il di' 8 novembre del 1494 Carlo VIII entro' in Pisa, i Pisani lo acclamarono, sperando coll’aiuto di lui, scuotere il giogo fiorentino che da ottantaquattro anni gravava sul loro collo. “Gremito, scrive Felice Tribolati (“I Crepuscoli Pisani”, Pisa, Nistri, 1871, p. 74), era il Lungarno di cittadini che s’affollavano sotto le finestre di Casa Medici, la porta ne era spalancata e piena di arcieri e di Svizzeri; nella sala principale stava il re e dall’aperto balcone spesso salutava il popolo che lo acclamava gridando: “Viva il nostro buon re Carlo; Viva Franza”. Simone Orlandi, gentiluomo pisano si presentava intanto a chieder a Carlo VIII le franchigie repubblicane ed a promettergli l’aiuto di Pisa tornata alla liberta', nella conquista del Reame di Napoli. Il Rabot, Consigliere del Parlamento del Delfinato, dal balcone del Palazzo solennemente protestava ai Pisani esser volere del Re che la citta' riprendesse le sue franchigie. Subito, al grido di viva il liberatore di Pisa, abbasso il Marzocco, fu abbattuto di sulla colonna del ponte di mezzo il Leone dei Fiorentini e gettato nell’Arno. Carlo VIII conquistava, com’e' notissimo, piu' facilmente che non credesse il regno di Napoli, e tornava in Pisa, il 20 giugno 1495, con mutati propositi.
Nella loggia presso la chiesa di S. Cristina tenevasi intanto una splendida festa di ballo alla quale erano convenute le principali gentildonne di Pisa e la leggiadrissima fanciulla Cammilla di Messer Luca Lante. Sul cominciar delle danze la giovanetta bellissima, piegando il ginocchio davanti al Sire di Francia l’aveva pregato di rendere ai Pisani la liberta'. Re Carlo, mosso dalle parole e dagli atti generosi e nobili di alcuni dei suoi baroni (V. in Tribolati, op. cit., p. 41-43), acconsenti' e nomino' capitano della cittadella e governatore di Pisa il bel Sire D’Entraguez, un dei nobilissimi cavalieri che avevano seguito il Re di Francia nella spedizione.
Se non che tre mesi dopo, uomini, donne e fanciulli erano intenti a difendersi notte e giorno dai fiorentini assedianti la citta', perche' Carlo VIII esausto di danari e dopo la battaglia di Fornuovo bisognoso dei Fiorentini, aveva mancato alle promesse fatte ai Pisani e ordinato al D’Entraguez che la fortezza fosse consegnata ai loro nemici.
Il bel Sire intanto, considerato dalla repubblica qual presidio della rinnovata liberta', aveva ottenuto dagli Anziani l’onore del patriziato pisano, il dono di un palazzo Lungarno e il castello di S. Regolo con tutte le sue appartenenze. Ma egli, senza disobbedire apertamente al suo Re per fuggir vergogna di fellonia, e pur volendo aiutare i Pisani, favoriva tutti i lavori di difesa, e intanto sugli spaldi della fortezza di Stampace presso la Porta a Mare, la giovanetta Cammilla dei Lanti, alla quale il D’Entraguez portava ardentissimo amore e ne era corrisposto, fervida di amor patrio dirigeva le operazioni guerresche (V. in Tribolati, op. cit., p.46). Poco dopo, il 16 di settembre, il Conte D’Entraguez riceveva una lettera di Carlo VIII. Questi lo rampognava perche' non avesse ancora obbedito agli ordini dati, e lo minacciava della indignazione, sua, se non avesse consegnato subito la cittadella e cogli altri francesi non si fosse allontanato da Pisa. Qual lotta terribile nell’animo di lui in quel contrasto tra l’amor di Cammilla e il suo dovere di cavaliere e di soldato! Egli, un D’Entraguez, nobilissima prosapia dei Balzac, fellone contro il Re di Francia! Ma alle parole di Cammilla, all’esempio del valore di lei, combattente sugli spaldi a fianco suo, vinse, dopo lunga tenzone, l’affetto. I Fiorentini, guidati da Vitellozzo Vitelli assalirono tosto il borgo della citta' da porta S. Marco; e il D’Entraguez, anziche' obbedire al suo signore, faceva mandare quanti piu' balestrieri si poteva su quell’antiporto, e ingiungeva che si ributtassero gli assalitori colle pietre e che gli artiglieri fulminassero il borgo con fuoco incessante; egli stesso accorreva alla porta S. Marco ed insieme a lui la bellissima Cammilla dei Lanti armata di spada. Caduta, la gentile donzella fu per essere calpestata dai cavalli della nuova irrompente schiera di fiorentini condotta da Paolo Vitelli, ma il D’Entraguez la salvo'. Gli assalitori non entrarono in citta'. L’amore aveva trionfato: ma il D’Entraguez fermava di allontanarsi da Pisa, per non continuar nell’atto di fellonia verso il suo Signore. Si mosse dal Duomo, il primo giorno del gennaio, un onorevole corteggio con la tavola di Nostra Donna di “sotto gli Organi” seguita dalla Signoria e dal popolo, e s’incammino' verso la cittadella. Il D’Entranguez ando' incontro alla processione fino a mezzo il Ponte alle Piaggie e dono' alla Vergine protettrice dei Pisani le chiavi della Fortezza (V. in Tribolati, op. cit., p. 48), indi si allontano' e la storia non dice altro di lui.
Ma il contrasto dell’animo suo, che pur non ribellandosi apertamente alla volonta' del suo sovrano, egli non aveva da un altro canto obbedito agli ordini suoi e poteva temerne disdoro e dolorose conseguenze; il dolore del suo cuore per l’abbandono della giovinetta valorosa e bella e l’angoscia di questa, che se poteva sperar la patria salva dal giogo aborrito, pur vedeva allontanarsi il gentil cavalier che per suo amore aveva fatto il piu' grande de’ sacrifizi, quello dei suoi doveri, soffermano il nostro pensiero su questi due personaggi, danno occasione di spaziare nei campi della fantasia e aguzzano la nostra curiosita'.

E la fantasia certamente, poiche' non abbiamo nessuna sicurezza di documenti, pose la fine di questo racconto gentile fra le pendici dei colli di Montenero, fra i gioghi aspri e solinghi del poetico Romito.
Angelica Bartolommei Palli, scrittrice livornese, molti anni prima che il Tribolati coll’aiuto delle cronache pisane, narrasse con quel bel garbo di lingua e di stile che gli era proprio la storia di Cammilla dei Lanti e del Sire D’Entraguez, scrisse su di loro quanto serve a compire il racconto che abbiamo riferito; ne' sappiamo se veramente immaginato da lei, donna di fantasia vivissima e piena di sentimento nei suoi scritti, o se veramente, come essa ci dice (“Cenni sopra Livorno e suoi contorni”, Livorno, Sardi, 1856, p. 121), il racconto che fa sia tolto da una cronaca inedita scritta in lingua volgare, ed a lei comunicata da persona che ebbe la ventura di vederla.
Secondo quel racconto, D’Entraguez, per aver disobbedito al Sovrano, avrebbe ricevuto una lettera dal maresciallo Tentaville nella quale gli si consigliava di fuggire per non morir della morte dei traditori; ond’egli, allontanatosi da Pisa, avrebbe cercato rifugio in cima a quell’ erta ove parecchi decenni dopo fu costruita la torre detta del Romito, trascorrendovi i giorni nella piu' angosciosa solitudine; poiche' la vergogna d’aver macchiato il suo onore gli rendeva intollerabile la vista degli uomini. Ma gli abitanti dei dintorni pensavano invece che quest’uomo, il quale aveva l’inferno nel cuore, vivesse in quella capanna immerso nella preghiera e nella meditazione; e la leggenda (Palli, op. cit., p. 120) dice che egli possedesse quel Crocifisso veneratissimo che dalla capanna del Romito infatti fu trasportato nella Chiesa di Montenero ove si venera.
Pisa intanto, abbandonata dai Francesi, lottava disperatamente a difesa della sua liberta'. Cammilla (La Palli ha cambiato il nome di Cammilla in quello di Gabriella) dei Lanti infelicissima per le sventure della sua terra nativa e perche' ignorava le sorti del suo D’Entraguez, si era ritirata in un suo castello a Montemassi, nei poggi livornesi, e nella solitudine di questo antico feudo della famiglia passava i giorni nell’angoscia e nel pianto.
Non erano compiuti due anni da che il D’Entraguez aveva consegnato la cittadella ai Pisani, quando al castello di Montemassi comparve, tra i rigori di una notte di gennaio, un monaco agostiniano che chiese di parlare al padre di Cammilla. Gli fu concesso: ed egli narro' che un eremita, abitator delle rupi che sovrastano alla Via Maremmana, lo aveva fatto chiamare a se', dal lontano eremo di S. Jacopo in Acquaviva: egli era accorso, ed aveva trovato un morente. Al quale pero' non aveva potuto apprestare i conforti della Religione, perche' il suo pensiero era lontano da Dio, era fisso in un obietto terreno; e, Padre, gli aveva detto tra i rantoli dell’agonia, io morro' disperato, e senza riconciliarmi con Dio, se non vedro' Cammilla dei Lanti. Andate al Castello di Montemassi e fate che il padre suo qui da me la conduca: ditegli che vi manda Ernesto D’Entraguez moribondo. Il vecchio Lante acconsenti'; la giovinetta fu menata per balze e per rupi sino alla capanna dell’infelice Eremita che trovarono ancor vivo. Egli pote' dirle che privo del suo onore e privo di lei non poteva ormai vivere; e che avendole sacrificato l’onore, aveva ben diritto che essa assistesse al momento estremo della sua vita.
La giovinetta pisana, il lettore se lo e' gia' immaginato, abbandonato il castello di Montemassi si ritrasse a vita claustrale e rese l’anima a Dio nel giorno anniversario della morte di Ernesto D’Entraguez.
Questa aspra rupe del Romito, da pochi anni splendido soggiorno signorile e solitudine deliziosa, l’eccitata fantasia popolo' talvolta di demoni tentatori di quei solitari che venuti dall’eremo della Sambuca vi si erano stanziati a vita ascetica e contemplativa (V. Morigi: “Historia degli uomini illustri per santita' di vita che furono gesuati”, in Venezia MDCIII, p. 233,247).

(Pietro Vigo: “Montenero: guida storico, artistica, descrittiva”, in Livorno, Tip. Gius. Fabbreschi, 1902).


Sidney Costantino Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847 – Roma, 24 novembre 1922).

Barone, nato in una nobile famiglia da padre di origini ebraiche e da madre britannica, era anglicano. Ministro delle Finanze e Ministro del Tesoro del Regno d’Italia dal 1893 al 1896, riporto' il bilancio dello Stato al pareggio e si oppose alla dispendiosa politica aggressiva di Francesco Crispi in Etiopia. Liberal-conservatore ed esponente della Destra storica, nel 1897, di fronte alle minacce del clericalismo e del socialismo, sostenne la necessita' di un maggiore rispetto dello Statuto albertino con una piena restaurazione del potere esecutivo da parte del re. Fu Presidente del Consiglio dei ministri dall'8 febbraio al 29 maggio 1906 e dall'11 dicembre 1909 al 31 marzo 1910. Nel 1914 divenne Ministro degli Esteri e con tale carica, che conservo' fino al 1919, condusse le trattative che portarono alla firma del Patto di Londra con cui l'Italia si impegnava ad entrare nella Prima guerra mondiale contro l’Austria. Dopo la vittoria, alla Conferenza di pace di Parigi (1919), partecipo' alle trattative rivendicando per l’Italia i territori promessi dal Patto di Londra contro la posizione degli Stati Uniti.

Le origini e la gioventu' (1847- 1877)
Sidney Sonnino era figlio di un commerciante di origine ebraica residente per lunghi anni in Egitto, Isacco Saul Sonnino (1803-1878). Sua madre, britannica, era Georgiana Sophia Arnaud Sonnino, nata Dudley (1823-1907). Sidney, di confessione anglicana, eredito' il nome dal nonno materno, Sidney Tery. Con il fratello Giorgio (1844-1921) consegui' con brillanti risultati l’ammissione al secondo corso di Liceo a Firenze e successivamente la licenza. Tornato a Pisa nel 1862, ridusse i corsi universitari a tre anni cosi' come aveva ridotto a due il liceo. Laureatosi a pieni voti e con lode nel 1865 in Diritto internazionale, manifesto' il suo futuro temperamento nella ritrosia a prendere parte al banchetto di rito e a prestarsi alla fotografia di gruppo. Nel 1866, di fronte all’imminente guerra contro l’Austria, il diciannovenne Sonnino vedeva come fondamentali i collegamenti fra politica interna ed estera, rammaricandosi che l’Italia fosse tanto giovane e debole internamente in un momento cosi' delicato. Dopo la delusione per la modesta prova bellica del suo Paese nella terza guerra di indipendenza e dopo aver tentato la professione di avvocato, grazie alla sua brillante laurea in Diritto internazionale, nel 1867 opto' per la diplomazia. Fu alle ambasciate di Madrid, Vienna, Berlino e si trovo' in Francia nel turbinoso periodo del 1870 (Guerra franco-prussiana). Fu di nuovo a Madrid e poi trasferito a San Pietroburgo, la cui residenza non volle accettare abbandonando nel 1873 la diplomazia. L’anno prima, intanto, aveva fatto pubblicare “Del governo rappresentativo in Italia”, dove gia' si esprimeva negativamente sugli eccessi del parlamentarismo e sui compromessi a cui il capo del governo doveva ricorrere per mantenere la carica. Compromessi e sotterfugi che non consentivano all’esecutivo di seguire una linea politica.


L’inchiesta sulla Sicilia

Tornato in Italia, riprese gli studi politici interessandosi alla condizione dei contadini della sua regione, la Toscana. Tradusse varie opere di autori anglosassoni fra cui “Principi fondamentali dell’Economia politica” dell’irlandese John Elliott Cairnes (1823-1875). Allievo dello storico e meridionalista Pasquale Villari, Sonnino nel 1876 parti' per la Sicilia allo scopo di studiare la situazione dell’agricoltura locale, anche nel timore che un mancato miglioramento della condizione delle masse rurali avrebbe portato allo scontro di classe. Il risultato fu l’inchiesta, redatta con l’amico Leopoldo Franchetti, “La Sicilia nel 1876” (1877), che costitui' la base di tutti gli studi successivi e dei provvedimenti legislativi sulla materia. In essa vennero evidenziati gli aspetti negativi del latifondo e denunciato l’assenteismo dei proprietari terrieri dell’Italia meridionale.

Deputato e giornalista (1878-1893)

Per esporre con maggiore efficacia le sue tesi, Sonnino fondo' assieme a Franchetti nel 1878 la rivista “Rassegna settimanale”, in cui sostenne il mantenimento della societa' nella forma dell’epoca, con un potere forte, ma a condizione di graduali concessioni di riforme sociali. Dopo due anni il giornalista Sonnino approdo' definitivamente alla politica, venendo eletto deputato per il seggio di San Casciano in Val di Pesa nella XIV legislatura il 16 maggio 1880. Schierandosi con la destra moderata fu rieletto nel Collegio IV di Firenze (che comprendeva quello d’origine) fino alla XXIV legislatura inclusa (1913). Del primo periodo in Parlamento si segnalano diversi interventi a favore della classe contadina, come il discorso del 7 maggio 1883 che denunciava le condizioni dei lavoratori del riso e piu' ancora dei miserabili della campagna romana, costretti a vivere in luride grotte senza luce. Considerato importante anche il suo discorso del luglio 1890, sulle leggi sociali, nel quale con osservazione dei fatti, ammoni' i ricchi oziosi definendoli “vera piaga corruttrice della societa'”. Ancora il 24 aprile 1883 argomento' in Parlamento sulle condizioni sanitarie delle abitazioni rurali in alcune province del Regno; e il 28 aprile 1891, a proposito della legge per il Risanamento di Napoli, invoco' abitazioni salubri per la povera gente.

La Politica estera
Diffidente per quello che avrebbe rappresentato l’influenza della Terza Repubblica francese sul Regno d’Italia, Sonnino in quegli anni appoggio' risolutamente l’idea di far uscire il suo Paese dall’isolamento con l’ingresso in un’alleanza con Austria e Germania. Appena eletto deputato, gia' il 29 maggio 1881, nella sua “Rassegna settimanale” esaminava le questioni di Trieste e Trento dimostrandosi contrario all’irredentismo. Nel discorso in Parlamento del 6 dicembre dello stesso 1881 si spinse oltre, dichiarando che chi vuole la pace deve mostrarsi pronto alla guerra auspicando un patto con Austria e Germania. Cio' in linea con il governo Depretis che concluse la Triplice alleanza l’anno dopo nello spirito difensivo auspicato da Sonnino. In quello stesso anno pero' egli defini' un’occasione mancata l’invito inglese, disatteso da Depretis, di collaborare ad una spedizione europea in Egitto devastato dalle sommosse. Nel 1885, d’altronde, Sonnino si dichiaro' favorevole al colonialismo. Egli condivideva su questi temi le idee di Francesco Crispi del quale appoggio' la politica filo-germanica quando nel 1887 quest’ultimo divenne Presidente del Consiglio.

Sottosegretario
Ma gli Affari Esteri avrebbero impegnato Sonnino a tempo pieno solo diversi anni dopo. Sin dalla sua seconda elezione infatti (novembre 1882) egli fu chiamato a far parte della Giunta generale del Bilancio, la quale gli affido' il delicato compito della relazione delle Entrate. Nella successiva legislatura (la XVI) fu ancora nominato l’8 gennaio 1889 Sottosegretario di Stato per il Tesoro, entrando cosi' nel primo governo di Francesco Crispi. In questo breve periodo (che duro' fino al 9 marzo 1889) Sonnino subi' l’influsso del ministro Costantino Perazzi il cui rigore gli fu da guida nelle successive cariche.

 

Ministro delle Finanze e del Tesoro (1893-1896)
Caduto il primo governo di Giolitti nel 1893 per lo scandalo della Banca Romana, dopo concitate trattative con Zanardelli, Re Umberto decise di optare per Crispi che il 15 dicembre 1893 formo' il suo terzo governo. Sidney Sonnino fu nominato Ministro delle Finanze e Ministro del Tesoro.

Il risanamento economico

Due mesi dopo, di fronte alla grave crisi finanziaria che colpiva il Paese, il 21 febbraio 1894 il neo-ministro Sonnino annuncio' alla Camera il suo programma di risanamento. Tenendo conto che il deficit ammontava a 155 milioni di lire, che non si poteva tagliare spese che per 27 milioni e che l’Italia non poteva contrarre prestiti, egli decise, coraggiosamente, di aumentare le tasse. Le sue proposte si sforzarono tuttavia di essere socialmente eque. Egli propose a carico delle classi ricche un’imposta sul reddito e la reintroduzione dei due decimi dell’imposta fondiaria; un aumento della tassa sul sale, che avrebbe colpito le classi meno abbienti; e infine un aumento dell’imposta sugli interessi dei Buoni del Tesoro, a carico soprattutto delle classi medie. Il dibattito parlamentare sul programma di Sonnino si apri' il 21 maggio 1894. L’opposizione alle sue proposte fu vigorosa, sia da parte dell’estrema sinistra sia da parte dei proprietari terrieri. Crispi fece appello al patriottismo dei deputati, ma la Camera si spacco' e il governo ottenne un’esigua maggioranza. La sera del 4 giugno Sonnino si rese conto che la sua posizione stava divenendo insostenibile e diede le dimissioni. Immediatamente Crispi annuncio' la caduta dell’intero governo. Re Umberto rinnovo' il mandato a Crispi che il 14 giugno 1894 presento' il suo nuovo esecutivo alla Camera. Crispi sostitui' Sonnino con Boselli alle Finanze e mantenne il primo al Tesoro. Due giorni dopo, il 16 giugno, subi' un attentato che falli'. L'episodio rafforzo' enormemente la posizione di Crispi e a luglio si pote' approvare la tassa del 20% sugli interessi sui Buoni del Tesoro. Questo provvedimento, chiave di volta della legge di Sonnino, fu il modo per arrivare al pareggio del bilancio. Si tratto' di una vittoria che allontano' l’Italia dalla crisi e preparo' la via della ripresa economica. A tale riguardo Sonnino aveva voluto introdurre la riforma anche per incoraggiare gli italiani ad investire in titoli meno sicuri ma piu' vantaggiosi per l’imprenditoria privata, come i titoli industriali.

La crisi con la Francia
La grave crisi diplomatica fra l’Italia e l’Etiopia, confinante con la colonia italiana dell’Eritrea che si determino' dal 1890, porto' anche ad una crisi europea a causa dei rifornimenti d’armi che la Francia elargiva all’imperatore etiope Menelik II. Con l’inizio della Campagna d’Africa, Sonnino, nel 1895, difese per ragioni finanziarie una politica coloniale di prudenza. Crispi invece, nel timore di uno scontro anche con la Francia, il 24 ottobre 1895 parlo' di potenziare il programma degli armamenti. Cio' era finanziariamente impossibile ribatte' Sonnino, visto che il governo doveva difendere il pareggio di bilancio, che tutti i risparmi erano gia' stati fatti e che era politicamente impossibile aumentare le tasse. Dopo ulteriori insistenze tuttavia, il 13 novembre, il Ministro del Tesoro acconsenti' ad un esborso di 3 milioni per l’esercito e 1 milione per la marina (cifre irrisorie se paragonate a quelle della Campagna d’Africa in corso). La guerra europea, alla fine, non ci fu.

La guerra di Abissinia
Nel gennaio del 1895 intanto le truppe italiane erano entrate nella Regione di Tigre' in Etiopia settentrionale. Dopo la sconfitta dell’Amba Alagi a dicembre, Crispi appronto' i piani per richiamare altri 25.000 uomini alle armi. Sonnino, non informato preventivamente, chiese le dimissioni ma Crispi le respinse assicurando il ministro che l’esercito si sarebbe tenuto sulla difensiva. Con l’occupazione etiope dell’avamposto italiano di Macalle' (gennaio 1896), Crispi fu sopraffatto dall’ambizione e parlo' di ottenere una vittoria decisiva. La stampa montava l’opinione pubblica e dopo la richiesta di ulteriori rinforzi, il 7 febbraio 1896 Sonnino ebbe un grave alterco con Crispi. Il giorno dopo in un Consiglio dei Ministri “tempestosissimo” Sonnino espose le maggiori spese che si richiedevano per la prosecuzione della Campagna: 64 milioni non compresi nel bilancio, e combatte' vivamente i progetti di altre spedizioni. Di fronte alle offerte di pace del nemico, intanto pervenute, sottolineo' l’importanza di dimostrare che la colpa di ogni ulteriore prosecuzione della guerra non doveva apparire dell’Italia. Crispi tento' di nascondere l'esistenza delle offerte di pace e accuso' Sonnino di aver negato i mezzi finanziari incolpandolo degli avvenimenti. Sonnino ribatte' che la guerra era stata annunciata come difensiva e fu sostenuto dai ministri Saracco e Morin. Al termine del Consiglio, durato quattro ore, si delibero' che il comandante della spedizione Baratieri avrebbe bloccato l’avanzata delle truppe su Assab e iniziato le trattative con gli etiopi. Interrotte quasi subito queste ultime, Baratieri propose di ritirarsi. Il 21 febbraio 1896, di fronte alle dichiarazioni del Ministro della Guerra Mocenni che senza ulteriori rinforzi si rischiava la catastrofe, Sonnino accetto' le decisioni del Consiglio dei Ministri per una sostituzione di Baratieri e per l’invio di altri 10.000 soldati. Crispi lo ringrazio' e propose una spedizione nell’Harar o in Somalia, ma Sonnino non ne volle sapere dicendosi preoccupato unicamente di salvare la colonia dell’Eritrea. Il primo marzo l’esercito italiano fu definitivamente sconfitto ad Adua e il governo Crispi cadde quattro giorni dopo e con lui l’incarico a Sonnino.

Torniamo allo Statuto (1897)
Offeso dal crollo di prestigio dell’Italia ed esasperato dai giochi di potere parlamentari, Sonnino riordino' le sue idee nell’articolo “Torniamo allo Statuto” in cui si chiedeva una lettura piu' restrittiva dello Statuto albertino allora in vigore come carta costituzionale del Paese. Nell’articolo, pubblicato il primo gennaio 1897 sulle pagine di “Nuova Antologia”, Sonnino sostenne che per salvare lo Stato liberale dal socialismo e dal clericalismo ed eliminare l’inefficienza delle istituzioni bisognava tornare ad una rigida interpretazione della Carta del 1848. Specificatamente auspico' una restaurazione dei poteri del re e una riaffermazione della responsabilita' del governo unicamente nei confronti del sovrano. L’articolo ebbe una notevole risonanza ma, per il suo contenuto anacronistico, non un seguito parlamentare.

I governi di Destra (1896-1900)
Dopo la caduta di Crispi si susseguirono dal marzo 1896 al giugno 1898 ben quattro governi guidati dall’esponente di Destra Antonio di Rudini' che alla fine si dimise di fronte ai gravi moti del maggio 1898 ai quali erano seguite le disposizioni di stato d'assedio. Durante questo periodo si sviluppo' la crisi di Creta che, ribellatasi nel 1897 all’Impero ottomano, ottenne uno statuto autonomo dopo l’intervento in suo favore di Gran Bretagna, Francia, Russia e Italia. Sonnino sostenne le ragioni dei rivoltosi affermando in un discorso in Parlamento (12 aprile 1897) la necessita' di mobilitarsi di fronte alla comunita' internazionale a favore di qualunque nazionalismo, trovando in questo principio le ragioni dell’esistenza del Regno d’Italia. Dopo la fallimentare esperienza di Rudini' prese la guida del Paese il generale Luigi Pelloux. Questa fu l’occasione per Sonnino (21 febbraio 1899) di schierarsi contro le leggi eccezionali promulgate da Rudini' e di tutte le regolamentazioni di stato d’assedio in tempo di pace. Il secondo governo Pelloux del 1899-1900 risenti' sensibilmente dell’indirizzo politico di Sonnino che ormai raccoglieva intorno a se' una buona parte dell’area conservatrice-liberale. Egli, nella breve vita del secondo governo Pelloux, si batte' principalmente per l’approvazione del decreto legge che sostituiva i provvedimenti bloccati dall’ostruzionismo parlamentare da lui considerato la negazione del diritto della maggioranza di decidere. Ma di fronte a questa e ad altre iniziative il governo dovette cedere ad una vera mobilitazione dei deputati.

A capo dell’opposizione conservatrice (1900-1906)
Con le elezioni del 1900, che registrarono un aumento dei socialisti, Umberto I affido' al moderato Giuseppe Saracco la guida del governo. Fu una delle sue ultime decisioni perche' il 29 luglio dello stesso anno fu assassinato. Durante questa legislatura (che duro' fino al 1904) e quella successiva Sonnino guido' l’opposizione liberal-conservatrice sostenuto dal quotidiano “Giornale d'Italia” che nacque nel novembre del 1901 da un suo progetto condiviso con Antonio Salandra. Durante il corso degli avvenimenti che, in quegli anni videro la diplomazia italiana sempre piu' avvicinarsi alla Francia, Sonnino passo' da una prima fase di diffidenza ad un giudizio negativo riguardo a tale politica. Rispetto al Ministro degli Esteri Prinetti egli infatti sosteneva uno stretto, sicuro e stabile rapporto con gli alleati della Triplice alleanza. In politica economica nel 1901 si manifesto' contrario alle tasse sui valori industriali e contrario alle tasse di successione, perche' contribuivano alla svalutazione della proprieta' immobiliare di quella parte del Paese, il Mezzogiorno, per il quale presento' in quel periodo un'importante riforma.

I Contratti agrari
Fra il 1900 e il 1902, infatti, Sonnino si fece iniziatore della proposta di legge sui Contratti agrari proponendo per il Mezzogiorno una larga riforma con la quale si chiedeva l’intervento dello Stato a difesa del colono costretto ad accettare contratti che lo privavano della giusta remunerazione. Il 26 novembre 1902 presento' la proposta di legge relativa ottenendo la firma di altri 35 deputati. Essa prevedeva la diminuzione dell’imposta fondiaria, la facilitazione del credito agrario, la diffusione dell’enfiteusi e il miglioramento dei contratti agrari allo scopo di combinare gli interessi dei contadini con quelli dei proprietari; veniva inoltre introdotto il principio della garanzia data dal proprietario ai prestiti fatti dai coloni. Ma il provvedimento non passo'. Rientrata la politica estera italiana nei ranghi dell’alleanza, nel 1904 Sonnino torno' ad interessarsi con passione alla questione rurale. Nel discorso del 13 febbraio, in riferimento alla presentazione di un disegno di legge del Presidente del Consiglio Zanardelli a favore della Basilicata, pur dichiarando il suo appoggio, critico' il provvedimento definendolo un’occasione mancata per risolvere i problemi strutturali del Mezzogiorno. Sonnino illustro' anche alcune proposte, fra le quali la promozione dell’enfiteusi.

Il primo governo Sonnino

Caduto il secondo governo Fortis all’inizio del 1906 dopo quattro crisi in cinque anni, Vittorio Emanuele III affido' il compito di formare un nuovo governo a Sidney Sonnino, oppositore della maggioranza giolittiana. Cio' fu possibile piu' per i disaccordi avvenuti nella maggioranza che per la possibilita' da parte del nuovo esecutivo di ottenere un consistente appoggio parlamentare. Sonnino fu quindi costretto, dopo lunghe trattative, a costituire una compagine eterogenea. Tuttavia, per i trascorsi di Sonnino, l’aspettativa nel campo delle riforme era notevole e, in buona parte, sopravvalutata vista la debolezza dell’appoggio parlamentare. Tale debolezza si concretizzo' sia nella novita' costituita dall’ingresso dei radicali nel governo, sia nel programma che poneva al centro dell’interesse la Questione meridionale, sia nell’appoggio esterno ed occasionale dei socialisti. A cio' si aggiungeva l’avversione da parte delle forze piu' dinamiche dell’economia e dei grandi proprietari terrieri meridionali. Il primo governo Sonnino ebbe infatti vita brevissima, durando dall’8 febbraio 1906 sino al 18 maggio seguente, giorno delle dimissioni. Tecnicamente l’esecutivo cadde per un puntiglio dello stesso Sonnino che chiese alla commissione parlamentare che si occupava del riscatto da lui stipulato per le Ferrovie Meridionali di riferire entro otto giorni. La proposta parve intesa a forzare la mano, ci furono delle proteste e delle richieste di rinvio ma Sonnino fu irremovibile e il parlamento gli tolse il consenso. In questo breve periodo al potere, Sonnino gesti' una buona parte dell’azione italiana alla Conferenza di Algeciras (16 gennaio - 7 aprile 1906) sulla diatriba franco-tedesca sul Marocco. In questa occasione egli condivise e appoggio' la linea di conciliazione e di amicizia con la Francia dell’inviato italiano Visconti Venosta.

Sulla Crisi bosniaca
Un ulteriore e significativo intervento in politica estera di Sonnino si ebbe in occasione dell’annessione austriaca della Bosnia nel 1908 senza che l’alleato italiano avesse avuto voce in capitolo ne' ricompense. A dicembre Sonnino si dichiaro' ancora sostenitore della Triplice alleanza, ma, aggiunse, rivolto all’Austria di auspicare maggiori reciproci riguardi fra alleati e, rivolto all’Italia, che viene piu' facilmente trascurato chi e' disarmato e i suoi interessi messi in secondo piano, nonostante le alleanze e i trattati che ha stipulato. Con questo spirito, fiducioso nel mezzo e nell'arma aerea, Sonnino fra il 1907 e il 1908 partecipo' a Roma alla fondazione del Club Aviatori che confluira' poi con un'analoga iniziativa milanese nell'Aero Club d'Italia nel 1911.

Il secondo governo Sonnino

Di fronte ad una forte opposizione dell’ala conservatrice del Parlamento che non accetto' alcune disposizioni di ordine economico, nel dicembre 1909 cadeva il terzo governo Giolitti. Di conseguenza fu indicato per la formazione del nuovo esecutivo l’onorevole Sonnino, che assunse la carica di Presidente del Consiglio l’11 dicembre 1909. La compagine dei ministri rispondeva alla causa per cui si era originata, era cioe' un governo prettamente conservatore. Forte dell’esperienza del breve governo precedente, Sonnino, temendo le trappole degli oppositori, non chiese il voto di fiducia, limitandosi a domandare che si aspettasse a giudicarlo dai fatti. Questa strada, all’epoca percorribile, era chiara ma meno adatta a vincolare i voti dei dubbiosi. Il programma fu esposto il 10 febbraio: vi si comprendevano tributi locali, istruzione, riduzione della ferma militare, Banca del Lavoro e istituzione del Ministero delle Ferrovie. Sonnino pero' dovette subito affrontare il problema delle convenzioni sulla riorganizzazione e il potenziamento dei trasporti marittimi. Su questo tema era caduto il precedente governo e, per evitare molte delle opposizioni, Sonnino propose una soluzione ridotta. Le resistenze, tuttavia, continuarono e il consiglio di Giolitti di rinviare la discussione per escogitare il modo di battere l’opposizione non fu accolto da Sonnino che il 31 marzo 1910, senza aspettare la votazione, presento' le dimissioni.

Dalla Guerra italo-turca allo scoppio della Grande guerra (1910-1914)

Fu ancora la politica estera, tuttavia, a distrarre Sonnino dalle sue delusioni parlamentari. Egli infatti fu particolarmente attivo prima e durante la Campagna militare che porto' l’Italia alla conquista della Libia ottomana. Nel 1911 ricopriva la carica di Ministro degli Esteri il Marchese di San Giuliano, che durante il primo governo Sonnino era stato inviato a Parigi come ambasciatore. Costui era fermamente intenzionato alla conquista della Libia e lottava con un titubante Giolitti a capo del suo quarto governo. San Giuliano mobilito' allora il fronte interno conservatore capeggiato da Sonnino. Quest’ultimo sostenne l’impresa attraverso il suo “Giornale d'Italia” e indirettamente attraverso il “Corriere della Sera” di cui era diventato il riferimento politico. L’influenza di Sonnino si esercito' anche sulle sorti della colonia appena conquistata. Il “Corriere della Sera” si schiero' infatti per la completa annessione e Sonnino si dichiaro' dello stesso avviso il 5 ottobre 1911, prima di imbarcarsi egli stesso per Tripoli. Il 5 novembre la Libia fu completamente annessa. Nel marzo del 1914 divenne presidente del Consiglio Antonio Salandra, conservatore, amico di Sonnino e suo ex ministro. Agli Affari esteri rimase San Giuliano che, dal 28 giugno 1914, data dell’attentato di Sarajevo, dovette gestire la difficile posizione dell’Italia di fronte alla crisi di luglio e di fronte allo scoppio della Prima guerra mondiale (28 luglio 1914). Nei primi giorni del conflitto San Giuliano e soprattutto Sonnino considerarono la possibilita', quasi la necessita', di scendere in campo al fianco degli alleati Austria e Germania. Tuttavia nei giorni successivi San Giuliano, forte delle sue buone relazioni con la Gran Bretagna e la Francia, comincio' a considerare la possibilita' di far cambiare rotta all’Italia, allo scopo di coronare le aspirazioni di unita' nazionale che un’amicizia con l’Austria avrebbe precluso. Le sue precarie condizioni di salute, pero', dopo la dichiarazione di neutralita' (3 agosto 1914) e un mese e mezzo di trattative, lo portarono alla morte (16 ottobre 1914). La carica di Ministro degli Esteri fu assunta ad interim da Salandra. Il 31 ottobre, anche il vecchio nemico dell’Italia nella Guerra italo-turca, l’Impero Ottomano, entrava in guerra, formando un’alleanza con Austria e Germania. In questo periodo Sonnino concretizzo' la sua passione per Dante Alighieri fondando nel 1913 la Casa di Dante in Roma (attiva tuttora) per la promulgazione e la diffusione della Divina Commedia.

Ministro degli Esteri (1914-1919)

Dopo la morte di San Giuliano, Salandra decise di passare a Sonnino, con cui aveva condiviso trent’anni di solidarieta' politica, l’incarico di Ministro agli Affari Esteri. Salandra riconobbe in lui la persona piu' adatta: colto, studioso, indipendente, consacrato alla politica, preparato nelle questioni di politica estera come in quelle di ogni altra questione dello Stato. Sonnino, dopo un momento di incertezza iniziale, accetto'. Il primo governo Salandra diede le dimissioni il 31 ottobre 1914 e il 5 novembre fu annunciato il secondo governo Salandra con Sonnino agli Affari Esteri.



Le trattative con Berchtold e Bulow

Fin dal luglio 1914 l’Italia aveva posto la questione che secondo l’articolo 7 della Triplice alleanza l’Austria avrebbe dovuto riconoscere dei compensi all’Italia per la sua guerra d’occupazione alla Serbia. La Germania, preoccupata di un disimpegno dell’Italia dalla Triplice alleanza, fini' per sostenere il punto di vista di Roma. Sonnino, in un telegramma per il Ministro degli Esteri austriaco Leopold Berchtold, datato 9 dicembre 1914, riprese il tema dei compensi sollecitando uno scambio di idee al riguardo e un concreto negoziato. Berchtold rispose che la guerra dell’Austria era difensiva in quanto la Serbia aveva intenzione di privare l’Austria della Bosnia. Ne', secondo Berchtold, si potevano considerare occupazioni vere e proprie quelle operate durante i combattimenti, quando i territori potevano essere abbandonati da un giorno all’altro. Con un nuovo telegramma datato 16 dicembre Sonnino rispondeva che essendo stato nominato perfino un governatore militare nella capitale della Serbia, Belgrado, le occupazioni rientravano nel contesto dei compensi previsti dall’articolo 7. Egli ricordava inoltre che durante la Guerra italo-turca l’Austria, appellandosi all’articolo 7 si era definita contraria (salvo ricevere compensi) a diverse operazioni militari dell’Italia la quale aveva dovuto rinunciarvi. In questa situazione di stallo la Germania decise di fare da mediatrice. L’ex Cancelliere tedesco ed ex ambasciatore in Italia Bernhard von Bulow, parti' da Berlino e il 18 dicembre 1914 incontro' Sonnino. Questi dichiaro' a Bulow che il Paese era per la neutralita', ma col presupposto che si potessero soddisfare alcune aspirazioni nazionali, intendendo con cio' compensi territoriali da parte dell’Austria. Il 30 dicembre Bulow torno' da Sonnino e l’ex Cancelliere chiese di limitare tutte le pretese dell’Italia al solo Trentino (la provincia di Trento) poiche' Trieste, l’altra aspirazione italiana, era considerata l’unico vero porto dell’Austria, il “polmone dell’Impero”.

Le trattative con Burian

All’Italia certamente non poteva bastare e si ando' avanti con sterili trattative fino al 12 febbraio 1915, quando Sonnino perse la pazienza e telegrafo' a Vienna ribadendo che l’Austria non aveva ancora risposto neanche sulla eventualita' di un accordo e che da quel momento riteneva una violazione all’articolo 7 dell’alleanza qualunque azione militare austriaca nei Balcani, cio' che avrebbe potuto “portare a gravi conseguenze”. Dopo ulteriori scambi di telegrammi e la sconfitta austriaca all’Assedio di Przemysl, il 27 marzo 1915 l’Austria formalizzo' la proposta di voler cedere una porzione del Tirolo Meridionale comprensiva anche della citta' di Trento. Cio' non convinse ne' Salandra, ne' Sonnino che l’8 aprile telegrafo' le controproposte italiane per il nuovo Ministro degli Esteri austriaco Stephan Burián. Esse comprendevano oltre alla cessione all’Italia del Trentino ai confini del 1811 e di alcune isole nell’Adriatico, un ampliamento dei confini orientali che avrebbero compreso Gorizia, la costituzione di Trieste come citta' autonoma e indipendente, il riconoscimento dell’Austria della sovranita' italiana su Valona, in Albania, e il disinteresse dell’Austria su quest’ultimo territorio (ottomano). Di contro l’Italia offriva all’Austria 200 milioni di lire italiane in oro come compenso per i territori ceduti e la sua neutralita' nei confronti sia dell’Austria che della Germania per tutto il periodo della guerra. Tali proposte furono in pratica rifiutate dall’Austria che si spinse poco oltre la sua proposta iniziale. Cosi', dopo altri scambi d’opinione, il 3 maggio 1915 Sonnino spediva a Vienna il telegramma con il quale l’Italia rompeva formalmente le trattative dichiarando senza piu' alcun effetto il trattato d’alleanza con l’Austria. Il 26 aprile 1915, infatti, l’Italia aveva firmato il Patto di Londra, con il quale si impegnava ad entrare nel conflitto al fianco dell’Intesa entro un mese. Ulteriori proposte dell’Austria vennero considerate da Sonnino e Salandra non soddisfacenti neanche nel caso in cui non fosse gia' stato firmato tale accordo.

I contatti con l’Intesa per l’intervento

Nella previsione che non si sarebbe arrivati ad un accordo definitivo con Austria e Germania, Sonnino, proseguendo la strada aperta da San Giuliano, il 16 febbraio 1915 spedi' via corriere all’ambasciatore a Londra Imperiali le condizioni, accettate le quali, l’Italia sarebbe entrata in guerra al fianco delle Potenze dell’Intesa. Il telegramma che autorizzava l’ambasciatore a leggere il contenuto del memorandum di Sonnino al Ministro degli Esteri britannico Edward Grey fu spedito il 3 marzo. Il giorno dopo Imperiali esegui' le disposizioni mettendo a conoscenza di Grey le intenzioni dell’Italia. Le condizioni principali erano le seguenti: obbligo per gli eventuali quattro futuri alleati (Gran Bretagna, Francia, Russia e Italia) di non concludere pace separata; concentrazione di forze russe ai confini austriaci; cooperazione delle flotte alleate; in caso di vittoria: cessione dall’Austria all’Italia del Trentino, del Tirolo Meridionale, di Trieste, di Gorizia, di Gradisca, dell’Istria, della Dalmazia e di varie isole dell’Adriatico; cessione dall’Impero ottomano all’Italia di Valona e territorio circostante; costituzione di uno Stato autonomo smilitarizzato in Albania centrale; congrua parte all’Italia in caso di ulteriore spartizione fra le potenze vincitrici dell’Impero ottomano o di concessioni economiche che lo riguardino; indennita' di guerra all’Italia; prestito di non meno di 50 milioni di Sterline all’Italia. La risposta delle potenze dell’Intesa si fece attendere fino al 21 marzo 1915 quando Grey la consegno' all’ambasciatore italiano Imperiali. Essa accoglieva sostanzialmente le condizioni italiane tranne che per la Dalmazia, sulla quale aveva gia' messo gli occhi la Serbia. Sonnino lo stesso giorno rispose risoluto che il motivo principale dell’eventuale entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa era il desiderio di liberarsi dalla situazione di inferiorita' nell’Adriatico con l’acquisizione della Dalmazia. Per il resto infatti l’Italia avrebbe potuto ottenere la maggior parte delle soddisfazioni alle sue aspirazioni nazionali dall’Austria, rimanendo fuori dal conflitto ed evitando i terribili rischi della guerra. Tuttavia, per venire incontro agli interlocutori, Sonnino e Salandra rinunciarono a Spalato. In quei giorni, inoltre, terminava l’Assedio di Przemysl con la vittoria russa e Sonnino si rese conto di dover concludere le trattative prima che il valore militare di un’entrata in guerra dell’Italia diminuisse consistentemente. Il Primo Ministro britannico Herbert Henry Asquith lo capi' e il 1º aprile comunico' un riassunto delle proposte dell’Intesa che accettava sostanzialmente le richieste del governo di Roma, ma prevedeva una riduzione dei siti strategici da assegnare all’Italia in Dalmazia. Il 3 aprile Sonnino telegrafo' a Imperiali a Londra: “Non ci e' possibile accettare emendamenti elencati da Asquith a nome Triplice Intesa. [...] Unica seria ragione per nostra partecipazione alla guerra [...] e' di assicurare il nostro predominio militare nell’Adriatico escludendo che vi possa avere o trovare una base navale qualsiasi altra potenza. [...]”.

Il Patto di Londra

Dopo altre perplessita' soprattutto della Russia, sollecitati dai capi militari che attribuivano massima importanza all’entrata in guerra dell’Italia, i governi dell’Intesa cedettero e il 25 aprile 1915 l’accordo era pronto. Le condizioni chieste dall’Italia erano state accolte tutte pressoche' nella forma iniziale, in cambio Sonnino propose l’entrata in guerra al fianco dell’Intesa ad un mese dalla firma. La Russia, che insisteva per un ingresso rapido dell’Italia, si oppose. Grey allora suggeri', e Sonnino accetto', che l’Italia sarebbe entrata in guerra il piu' presto possibile, ma non oltre un mese dalla firma dell’accordo. La Russia acconsenti' malvolentieri. Il 26 aprile 1915 l’accordo che impegnava l’Italia ad entrare nella Prima guerra mondiale al fianco di Gran Bretagna, Francia e Russia fu firmato a Londra, alle ore 15. Rispettando i tempi, l’Italia dichiaro' guerra all’Austria il 23 maggio 1915. Eccettuato il “Libro verde” che comprendeva i documenti diplomatici delle relazioni fra Italia e Austria e che fu presentato da Sonnino al Parlamento il 20 maggio, non si ebbe notizia di altri contatti o accordi con altre Potenze, benche' intuibili. Solo alcuni parlamentari furono messi a conoscenza del Patto di Londra del quale il popolo italiano non ebbe notizia fin quasi la fine della guerra.

Durante la Prima guerra mondiale

Durante la guerra il governo Salandra, in relazione all’offensiva austriaca del Trentino del 1916, cadde e fu seguito dal governo di Paolo Boselli (18 giugno 1916) che riconfermo' Sonnino agli Esteri. Questi fu ancora confermato al suo posto da Vittorio Emanuele Orlando che divenne Presidente del Consiglio dopo Caporetto il 29 ottobre 1917 e il cui mandato duro' fino al 23 giugno 1919.




Il problema dei Balcani

Sonnino nel 1915 dovette tenere a bada Serbia e Montenegro i cui eserciti sconfinarono in Albania; indusse il Consiglio dei Ministri a dichiarare guerra alla Turchia (avvenuta il 21 agosto 1915) e temporeggio' su un’analoga azione contro la Germania; nello stesso tempo rifiuto' di fare concessioni alla Serbia coerentemente a quanto convenuto a Londra. Spinse inutilmente per l’entrata in guerra della Bulgaria contro la Turchia; ma si rifiuto' ancora di concedere importanti vantaggi alla Serbia affinche' questa consentisse compensi alla Bulgaria. Invito' le altre tre potenze dell’Intesa a garantire alla Bulgaria la Macedonia al termine della guerra, chiedendo di non impegnarsi subito anche con Serbia e Grecia. Il 6 settembre, tuttavia, la Bulgaria, mentre i ministri dell’Intesa discutevano ancora la proposta da inviarle, firmo' un trattato segreto di alleanza con gli Imperi centrali. Sonnino consiglio' fino all’ultimo di non rompere completamente con la Bulgaria, anche dopo che questa aveva mobilitato l’esercito (21 settembre), ma alla dichiarazione di guerra della Bulgaria alla Serbia (5 ottobre) approvo', in difesa di quest'ultima, la spedizione alleata di Salonicco.

Al convegno per la Turchia di San Giovanni di Moriana

A meta' settembre del 1916, Sonnino venne a conoscenza dei dettagli degli accordi precedenti e seguenti all’entrata in guerra dell’Italia fra Gran Bretagna, Francia e Russia riguardanti l’Asia Minore. In considerazione di una suddivisione equa delle sfere d’influenza alleate in Turchia prevista dal Patto di Londra, Sonnino protesto' e il 23 settembre ottenne l’impegno da parte della Gran Bretagna di non ritenere chiusa la questione fin quando non fosse stata definita la zona di competenza dell’Italia. Per stabilirla, nell’aprile del 1917, Sonnino si incontro' con il Primo Ministro britannico David Lloyd George e con il Presidente del Consiglio francese Alexandre Ribot a Saint-Jean-de-Maurienne, in Francia. In quella sede Lloyd George presento' una carta dell’Asia Minore proponendo per l’Italia la citta' di Smirne e un protettorato comprendente la parte settentrionale del vilayet (provincia) omonimo, una zona ancora piu' a nord e una porzione di territorio ad ovest di Mersin. Dopo ampie discussioni sia Sonnino che Ribot accettarono la proposta britannica. Sonnino ottenne inoltre Konya, oggetto di una precedente proposta britannica. In cambio Lloyd George chiese all’Italia un contingente da mandare a Salonicco per dare il cambio alle truppe inglesi da schierare contro la Turchia, oppure un contingente italiano da mandare contro la Turchia. Sonnino rifiuto' dichiarando che sarebbe stato “vitalmente pericoloso” disimpegnare truppe dal fronte austriaco. Il 10 maggio arrivo' l’accettazione ufficiale del governo francese alle decisioni di Saint-Jean-de-Maurienne, ma, ancora a giugno Sonnino doveva denunciare “il contegno dilatorio” degli alleati per chiudere definitivamente la questione. Finalmente, il 27 luglio, fu trovato un compromesso con la Francia sul confine fra le zone italiana e francese e il 18 agosto a Londra fu firmato l’accordo che prevedeva per l’Italia una zona molto vasta in Anatolia meridionale comprendente Smirne, Aydin, Adalia e Konya. Oltre a Sonnino concordarono il testo definitivo Ribot e Pierre de Margerie (1861-1942) per la Francia, il Ministro degli Esteri Arthur Balfour e Robert Cecil per la Gran Bretagna, e Giacomo De Martino e l’ambasciatore Imperiali per l’Italia.

L’inattesa pubblicazione del Patto di Londra

Dalla primavera del 1917 si susseguirono, specie da parte britannica, proposte all’Italia di considerare la possibilita' di una pace con l’Austria. Cio' avrebbe incluso una revisione dei termini del Patto di Londra: Sonnino rifiuto', anche quando in agosto Papa Benedetto XV invito' i belligeranti ad accordarsi. Scoppiata la Rivoluzione russa, ci fu la pubblicazione da parte della stampa sovietica dal 23 novembre 1917 in poi degli atti dell’Intesa, fra cui il Patto di Londra che, come abbiamo visto, era segreto perfino alla maggioranza dei parlamentari italiani. A dicembre, alla Camera, Sonnino dovette rispondere delle azioni sue e del governo Salandra. Il 13, il deputato Giacomo Ferri (1860-1930) fece notare che il 26 aprile 1915 l’Italia si impegno' ad entrare in guerra contro l’Austria quando ancora era sua alleata. Con Vienna si disimpegno' infatti solo il 4 maggio. Non solo, ma poiche' il Patto di Londra prevedeva il conflitto sia con l’Austria che con la Germania, quest’ultima fu illusa fino al 28 agosto 1916 che l’Italia non le avrebbe dichiarato guerra. Il giorno dopo il deputato Alfredo Sandulli chiese le dimissioni di Sonnino e il 15 il deputato Guglielmo Gambarotta (1877-1961) chiese di affrettare la pace. Lo stesso giorno Sonnino ricevette l’attacco piu' grave dal socialista Giuseppe Emanuele Modigliani che lo accuso' di aver ingannato il Parlamento facendogli credere che la guerra sarebbe stata ristretta all’Austria. Modigliani dichiaro' inoltre che se Sonnino avesse detto tutto subito la sua politica sarebbe stata condannata.

La difesa del Patto di Londra in Parlamento

La risposta di Sonnino non si fece attendere. Alla Camera (riunita in comitato segreto) il 17 dicembre 1917, secondo gli appunti rinvenuti, Sonnino dichiaro' che il segreto diplomatico c’era sempre stato ed era indispensabile per non cadere in una condizione d’inferiorita'. L’atto di divulgazione commesso dai sovietici bastava a giustificare il piu' severo giudizio morale a loro carico. D’altra parte, sostenne, il primo passo decisivo per l’Unita' d'Italia consistette negli accordi di Plombie'res del 1859 che furono per l’appunto segreti. Ad ogni modo si dovevano mantenere gli accordi presi e quindi non si poteva rispondere a tutte le interrogazioni per non turbare negoziati ancora in corso o questioni ancora da regolarsi. Nel 1918 Sonnino sostenne la necessita' di salvare a tutti i costi l’alleanza con la Russia, sostenuta ormai solo dall’Ucraina e da qualche altro governo provvisorio. Rifiuto' l’idea che i governi locali antisovietici dovessero arrivare ad un compromesso con Pietrogrado e chiese di incoraggiarli a combattere i bolscevichi. Nonostante il crollo della Russia zarista e la Germania continuasse la guerra, l’Austria, il 3 novembre firmava la resa con tutte le potenze alleate. L’armistizio entro' in vigore il giorno dopo.

Alla Conferenza di pace di Parigi

Dopo la resa degli Imperi centrali, le potenze vincitrici si riunirono alla Conferenza di pace di Parigi (18 gennaio 1919 - 21 gennaio 1920). Tale convegno determino' il Trattato di Versailles che fu firmato il 28 giugno 1919 e che stabili' le clausole contro la Germania, e il Trattato di Saint-Germain che fu firmato il 10 settembre 1919 e che stabili' le clausole contro l’Austria. I capi di governo delle quattro maggiori potenze vincitrici: Clemenceau per la Francia, Lloyd George per la Gran Bretagna, Wilson per gli Stati Uniti e Orlando per l’Italia, con i loro piu' fidi collaboratori, costituirono un gruppo ristretto incaricato di discutere le questioni principali. Tra i collaboratori di Orlando figurava ovviamente Sonnino il quale, conoscendo l’inglese cosi' come Clemenceau, consenti' a tutto il gruppo di esprimersi e discutere nella lingua di Lloyd George e Wilson. Nei primi giorni della conferenza, il 21 gennaio, Lloyd George propose di invitare i bolscevichi al negoziato. Clemenceau e Sonnino si opposero non volendo concedere loro credibilita'. Il primo tuttavia, si disse disposto ad adeguarsi al volere degli alleati; Sonnino invece tenne duro e propose di radunare tutti i russi bianchi e di fornire loro le truppe necessarie. Quando pero' Lloyd George chiese quanti soldati poteva procurare ognuna delle nazioni rappresentate, la risposta di tutti fu evasiva. Avviati i negoziati, Sonnino insistette perche' le contrapposte rivendicazioni dell’Italia e quelle iugoslave fossero discusse solo dal gruppo ristretto di nazioni, il cosiddetto Consiglio supremo, temendo, giustamente, che un comitato di esperti piu' ampio si sarebbe preoccupato piu' della correttezza delle frontiere rispetto alle etnie locali che alle clausole del Patto di Londra. In questo periodo Sonnino, che rifiuto' anche di discutere su di un’eventuale impiccagione di Guglielmo II, si conquisto' presso gli alleati una fama di intransigente. Cosi' che quando a fine marzo il Consiglio supremo si ridusse ai soli quattro capi di governo, si disse che la decisione era stata presa per sbarazzarsi di Sonnino.


Contro il presidente statunitense Wilson

Sonnino non manco' tuttavia di rendersi partecipe dei negoziati, soprattutto quando il Presidente statunitense Wilson assunse posizioni contrarie alle richieste italiane. Wilson infatti, poiche' gli Stati Uniti non avevano partecipato alle trattative che avevano portato al Patto di Londra, si ritenne libero di contestarlo e di rifiutarlo. Tale accordo violava secondo il presidente degli Stati Uniti il principio dell’autodeterminazione dei popoli dato che all’Italia erano stati promessi territori abitati da slavi.
Fin dal 13 gennaio Wilson aveva informato Orlando che aveva raggiunto la conclusione che il Patto di Londra non fosse piu' valido e in questi termini la questione rimase ferma per alcune settimane. Sonnino, infatti, coerentemente con quanto stabilito con Francia e Gran Bretagna riteneva il Patto di Londra sacro. Il carattere intransigente del ministro italiano era accompagnato dalla estrema riservatezza e dal rifiuto di manovrare dietro le quinte per conto del suo Paese, convinto che “ricorrere a tale mezzo fosse un abbassarsi al livello di quei piccoli popoli che andavano mendicando territori all’opinione pubblica mondiale”. Verso la fine di gennaio, il direttore del “Times” Wickham Steed (1871-1956) riferi' che Wilson aveva avuto un “colloquio tempestoso” con Sonnino “che pare abbia perduto la pazienza e sia arrivato a dire a Wilson di non immischiarsi negli affari europei, ma di pensare soltanto alla sua America”.

Il ritiro dell’Italia

Il 7 febbraio 1919, fu presentato alla conferenza il memorandum ufficiale italiano il quale riepilogava le richieste italiane. Esse erano le stesse di quelle del Patto di Londra, delle quali le uniche che furono accolte senza difficolta' furono quelle che assegnavano all’Italia il Trentino e il Sud Tirolo. Il 19 aprile 1919, il sabato prima di Pasqua, si apri' una discussione che sarebbe durata sei giorni di fila. Wilson sprono' i delegati italiani a pensare in termini nuovi ma questi rimasero sulle loro posizioni. Sonnino ribatte': “Dopo una guerra cosi' piena di enormi sacrifici, ove l’Italia ha avuto 500.000 morti e 900.000 mutilati, non e' concepibile dover ritornare ad una situazione peggiore di prima, perche' la stessa Austria-Ungheria, per impedire l’entrata dell’Italia in guerra, ci avrebbe concesso alcune isole della costa dalmata. Voi non vorreste darci nemmeno queste. Per il popolo italiano cio' sarebbe inspiegabile” definendo, poi, le conseguenze: “Non avremo il bolscevismo russo, ma l’anarchia”. Nello stesso tempo gli iugoslavi dichiararono di essere pronti a combattere qualora l’Italia avesse ottenuto Fiume o la costa dalmata. Wilson, risoluto a non cedere alcunche' della Dalmazia all’Italia, il 23 aprile 1919 invio' una dichiarazione ai giornali con le motivazioni per le quali riteneva che il Patto di Londra dovesse essere messo da parte. Orlando decise di abbandonare la conferenza e tornare in Italia il 24, Sonnino lo segui' dopo un paio di giorni.


La caduta del governo Orlando

Orlando e Sonnino il 5 maggio 1919 annunciarono che sarebbero tornati a Parigi, e lo fecero, ma il clima ormai era compromesso, sia in Francia che in Italia. Il 23 giugno, proprio su di una proposta di politica estera, il governo Orlando si dimetteva, ma Sonnino e altri due membri della delegazione italiana si fermarono a Parigi per firmare il Trattato di Versailles (28 giugno 1919). Rispetto al Patto di Londra l’Italia otteneva solo i territori geograficamente italiani che avrebbero consentito in futuro una migliore difesa della nazione da parte dell’Austria che, tuttavia, scomparve completamente come potenza. Tali territori erano: il Trentino e il Sud Tirolo, oltre all'area comprendente Trieste, Gorizia, Gradisca e l’Istria. Nulla o quasi ottenne riguardo a quanto pattuito sull’Adriatico e la Dalmazia (materia del Trattato di Rapallo del 1920), ne' riguardo all’Impero ottomano.

Gli ultimi tempi (1919-1922)

Caduto il governo Orlando, gli succedette quello del radicale Francesco Saverio Nitti che assegno' la carica di Ministro degli Esteri a Tommaso Tittoni. Amareggiato dalla conclusione della Conferenza di Parigi, il settantaduenne Sonnino si ritiro' dalla vita politica e non volle presentarsi alle elezioni per la XXV legislatura (iniziata nel dicembre 1919).
Ne' la nomina a Senatore a vita, conferitagli il 3 ottobre 1920, lo incito' a rientrare fattivamente in politica. Negli ultimi tempi si dedico' maggiormente agli studi danteschi che lo avevano sempre appassionato e mori', il 24 novembre 1922, a Roma.
Ai suoi solenni funerali, che si svolsero il giorno seguente nella capitale, parteciparono il neo presidente del Consiglio Benito Mussolini e i presidenti di Camera e Senato Enrico De Nicola e Tommaso Tittoni; al passaggio del feretro i fascisti gli resero omaggio con il saluto romano. La sua salma riposa in una grotta scavata in una scogliera a picco sul mare, presso il castello che lo stesso Sonnino fece costruire come sua residenza a Quercianella, vicino Livorno.



 
 
 
 

LA TOMBA DI SONNINO

La “Costa Azzurra”! Chi abbia messo questo poetico nome al tratto di continente che costeggia capricciosamente il Tirreno dall’Ardenza fino a Castiglioncello non lo so, ma certo poche volte ho visto affibbiar meglio un aggettivo. La strada bianca e polverosa tra il Calafuria e Quercianella si snoda fra mezzo a sorprese continue vigilata dai monti verdi del Gabbro e di Nibbiaia le cui donne statuarie sono state immortalate nelle tele del Cecconi e nelle acqueforti di Giovanni Fattori. Tra quei monti un sentiero di sogno fra mezzo a macchie profumate e canti d’uccelli conduce al Santuario di Montenero di dove si puo' godere tutto l’incanto che si adagia sulla marina sfolgorante di gemme sotto il limpidissimo sole toscano. La marina bacia le scogliere bizzarre e vi scava per entro grotte naturali e scolpisce nei blocchi verdastri figure chimeriche tosando gli alberi con l’assiduo morso del libeccio e piegandoli tutti dal lato di terra sicche', di lontano, paiono torme di deita' boscherecce che fuggano l’assalto dei cavalloni. Ad ogni promontorio, che a guisa di prua rostrata si spinge tagliente contro le onde bollenti, si leva una torre Medicea. I merli delle moli massicce che ricordano il modo del Sangallo ripristinati e ripuliti dalla praticita' attuale, guardano sbucare dai piccoli tunnels la vaporiera che lascia lunghi stracci di fumo celeste penzoloni ai rami dei pini arsicci ed agl’intrighi dei carpini, dei corbezzoli e dei quercioli.
Uno di questi promontori s’aderge piu' alto, piu' prepotente di tutti, rivestito di vegetazione ricca, incoronato di una fabbrica maestosa, imponente e alla sua sinistra si adagia tutto pieno di gioia, di frescure, di svoli d’usignoli, di lampeggiamenti di fiori, il lunato golfo di Quercianella dove un mio omonimo parente ha creato uno stabilimento di bagni, provvidenzialmente nascosto dai boschetti che digradano alla riva fra mezzo ad aiuole stellanti di margherite, di iridi, di giaggioli, di geraneii, di rose, di anemoni, di giacinti, di passiflore. Questo promontorio si chiama il colle del Romito. Il Castello che si aderge lassu' e' di proprieta' di un uomo alle cui mani sono affidati oggi i destini d’Italia e che si e' assicurato un nome incancellabile nella storia per aver rappresentato la volonta' del nostro paese nei momenti piu' tragici che abbia mai traversato, per averne sostenuto a viso aperto i diritti nel consesso delle Nazioni dopo la piu' grande vittoria che abbiano registrato i secoli.
Nella meravigliosa solitudine di questo paradiso terrestre, in cospetto al mare, al suono formidabile del suo respiro che mai s’acqueta ne' sotto il sole, ne' sotto le stelle, avvicinando l’uomo, che ascolta solitario, col suo mormorio gigantesco al Creatore dell’Universo, nel castello turrito lontano al tumulto degli uomini, il diplomatico italiano, quando doveva ritirarsi dalle lotte parlamentari nelle quali riusciva soccombente perche' forse troppo anguste alla sua volonta' rigida e al suo intelletto sereno, si chiudeva coi suoi libri.
Solo, fra la storia muta e il mare eloquente, riusciva a dare una voce alla prima e a non udire piu' il secondo, nutrendo l’anima del cibo spirituale che doveva dargli forza a guidare la barca della patria fra mezzo allo scatenarsi della piu' grande tempesta politica che abbia sconquassato la terra.
In quei giorni, non piu' di una diecina di anni or sono, i pochi abitanti di Quercianella ricordano talvolta di aver veduto uscire un’imbarcazione dal chiuso porto profondo e tranquillo dove Sonnino la tiene riparata in una specie di cala artificiale ed avventurarsi sull’onde.
Tal altra ricordano d’aver veduto l’uomo di Stato, solo in una piccola barca snella, remare in maniche di camicia sul Tirreno turchino, costa, costa, soffermandosi talvolta a guardare le pallide meduse, che, a torme, trascorrono a fiore delle acque metalliche e trasparenti in fondo alle quali si vedono le brughiere verdissime delle alghe continuamente agitate quasi da un vento sottomarino. Il mare, in tali casi, era placido e spesso la barca si fermava in mezzo all’immenso specchio appena tremolante nell’afa della bonaccia e allora l’uomo lasciava cadere i remi nell’acqua e rimaneva immobile sotto il cielo sul mare liscio dai riflessi di lacca, di fronte al sole che fiammeggiava calando fra le nebbie violacee, immemore, sperduto in un suo enorme sogno lontano...
Per andare al Castello s’inerpica un sentiero ripidissimo, sassoso, bruciato dal sole e dal libeccio, fra piante basse.
Qualche merlo, ad un tratto, guizza dalla macchia chioccolando sguaiato, e, come una freccia si slancia piu' basso, si tuffa nel fittume in una delle tante insenature, vicino agli scogli. Prima c’erano moltissime lepri; il Romito ne brulicava; ma a mezzo poggio c’e' un cancellino di dove le lepri, dopo il tramonto nelle serate di guazza e di pioggia, o la notte, nei pleniluni, s’insinuavano ed uscivano a scorrazzare per i campi finitimi in cerca di cavolo e di trifoglio. Sotto la vetta del poggio, a un centinaio di metri d’altezza a picco sul mare s’apre, scavata dai venti nel lungo progresso dei tempi, una di quelle grotte che, appunto per questo portano il nome di Eolie. In questa grotta per lungo tempo visse e prego' un romito, dal quale prese il nome tutta la collina. La leggenda del monaco non ho saputo rintracciarla, i frati di un non lontano convento non seppero dirmi nulla in proposito. Si vede nella grotta ancora il luogo dove l’asceta si coricava e alla scabra parete, ma certamente collocatavi da non molto tempo, si vede una croce... Comunque sia, quel romito era, se non un santo, un poeta. Egli dormiva nel cuore della montagna, vigilato dagli occhi delle stelle, cullato dall’ armonia formidabile e sempre nuova del mare, risvegliato dal canto di migliaia di uccelli e baciato in fronte dal sole. Qui il nostro Ministro degli Esteri ha eletto di essere sepolto; e, da uomo che sa guardare virilmente in faccia a qualunque problema, anche a quello della morte, si e' fatto erigere il monumento secondo il proprio desiderio, l’ha voluto vedere attuato coi propri occhi. Nel mezzo della grotta e' un enorme blocco quadrato di granito sanguigno, proprio in faccia alla linea dove si confondono l’orizzonte e il mare. Nel blocco a grandi caratteri lapidari e' inciso il nome: “Sidney Sonnino” e la data della nascita... Speriamo che questa data rimanga sola per lunghi anni ancora.
Come si vede, una cosa semplice e immensa.

(Ferdinando Paolieri in “La Nazione” del 26 Marzo 1919).


 
 
 
 
 
 
 
 

LA MORTE DI SIDNEY SONNINO

Roma 24 mattina - Verso le 22 di ieri le condizioni dell’On. Sonnino si erano andate aggravando, e l’infermo aveva gia' perduto ogni conoscenza. Verso le 24 i parenti hanno avuto la sensazione che l’ora del trapasso fosse per giungere e, costernatissimi, hanno cercato di prodigare all’infermo le piu' amorevoli e premurose cure. L’On. Di Cesaro' si e' affrettato ad accorrere a casa del medico curante Prof. Roseo, il quale si e' nuovamente recato al capezzale dell’illustre uomo. Purtroppo pero' il Prof. Roseo, non appena entrato nella camera dove giaceva l’On. Sonnino, ha compreso che la grande ora era imminente, e non ha nascosto ai parenti dell’infermo che ogni speranza di guarigione era ormai perduta. Infatti l’infermo si e' andato spegnendo rapidamente e alle 0.45, dopo un lieve sussulto, e' spirato.
Al momento della catastrofe, erano attorno al letto tutti i parenti, e cioe': le sorelle baronessa Montanaro e la baronessa De Renzis; la cognata baronessa Sonnino nata Rocca; i nipoti conte Alessandro Pecori-Girardi e duca Di Cesaro', Ministro delle Poste, il barone Di Montanaro e il barone Leone De Renzis. Erano pure presenti la contessa Iva Franchetti e tutti i familiari. Nella giornata, verso le 16, era stato chiamato a visitare l’On. Sonnino il pastore protestante della Chiesa Americana posta in Via Napoli, reverendo Theodor Sedgwick. Nella nottata per opera dei parenti e dei familiari, la salma era stata vestita di nero, e ai lati del letto sono stati posti dei ceri accesi
Nessuna disposizione e' stata presa finora per i funerali. Si attende l’apertura del testamento, che contiene le volonta' dell’estinto.

(“Il Telegrafo”, 24 Novembre 1922)


 
 
 

LA SALMA DEL BARONE SONNINO TRASPORTATA A LIVORNO


E' in queste luminose giornate di Novembre, nelle quali si maturano i fati dell’Italia della Vittoria, che la salma di Colui che della Vittoria fu uno dei piu' grandi artefici tra la muta ed affettuosa reverenza del popolo e' venuta a posare nella tomba che Egli stesso da lungo tempo si era preparata. Il meditabondo spirito non ha voluto onori speciali; schivo della facile popolarita', Egli l’ha disdegnata anche quando sarebbe stato sciolto dai lacci terreni; ma piu' bello, piu' spontaneo apparisce l’omaggio che il popolo ha voluto dargli a Roma, affollando le vie per le quali il suo corpo doveva essere trasportato fino alla stazione.

(Foto Istituto Luce)

 
 
 

ALLA STAZIONE DI LIVORNO

E stanotte nelle vie di Livorno, verso le tre e mezzo, risuonavano dei canti di giovinezza: erano fascisti e nazionalisti che si recavano alla Stazione coi loro gagliardetti, per rendere omaggio d’onore alla Salma del Grande scomparso. Essa giunse a Livorno col diretto N. 8 alle 3.54, in un semplice carro per trasporto merci segnato col numero 151400; ma anche durante il viaggio da Roma a Livorno era stata scortata dai fascisti. Il carro, staccato dal treno, fu posto nel primo binario e subito davanti ad esso si colloco' una guardia d’onore composta di due carabinieri, due fascisti e due nazionalisti con gagliardetto e guardie municipali. Alle 8 giunse il carro della Misericordia, che dalla famiglia era stata incaricata del trasporto della salma da Livorno al Castello del Romito. Sono alla Stazione anche varii parenti ed amici del defunto, fra i quali notiamo i nipoti Barone di Montanaro De Renzis, Leone De Renzis, tenente di vascello De Renzis, baronessa Nerina De Renzis in Traxler, colonnello nobile Traxler, Francesco De Renzis, conte Pecori Giraldi, baronessa Elena Sonnino, baronessa Montanaro, senatore Bergamini, coi redattori Nicola Pascanzio e Bisacchio del “Giornale d’Italia”; contessa Francesetti di Malgra', il Prefetto Grand. Uff. Verdinois, il Commissario Regio del Comune, il Presidente della Deputazione provinciale di Pisa, il quale informa i presenti che ieri sera nell’adunanza del Consiglio Comunale ha deliberato di intitolare un lungarno col nome di Sonnino; il Sindaco e il Prefetto di Pisa.
Viene aperto il carro; la cassa e' avvolta in un drappo tricolore, e vi sono posate sopra le tre splendide corone di S.M. il Re e la Regina, della Regina Madre e del Comune di Roma, per le quali si e' fatta eccezione alla espressa volonta' del defunto di non voler fiori.
L’Italia rappresentata dal Re e Roma immortale possono e debbono deporre un fiore sulla tomba di questo grande figlio, che tanto ha amato ed onorato la Patria. Il loro privilegio non e' violazione della volonta' di Lui. Feretro e corone vengono caricate dai fascisti sull’automobile della Misericordia; i fascisti e gli amici prendono posto in altre due automobili, ed il mesto corteo a grande velocita' si dirige al castello del Romito, per quella meravigliosa strada del litorale, che in questa mattina limpida apparisce in tutta la sua incantevole bellezza.,


 
 
 
 

AL ROMITO

All’ingresso del castello del Romito un gruppo di persone attendono fino dalle prime ore l’arrivo del mesto convoglio. Notiamo fra costoro una schiera del fascio di Quercianella, composta dai Signori: capitano Ing. Giuseppe Bizzarrini, sottotenente dottor Vittorio Bonichi, membri del direttorio e gli squadristi Bacci Bartoli Augusto, Serravalle Ugo, il signor Giovanni Paolieri, genio benefico di Quercianella, impareggiabile dilettante fotografo, armato della sua potente macchina, il cav. Corsi, il capostazione sig. Giovanni Stella, rappresentante della sezione liberale di Cecina e vari colleghi della stampa. La rigida mattinata e' addolcita dai raggi di un sole magnifico che ravviva di colore i boschi, le rocce e il mare. Mentre si attende dall’Ing. Bizzarrini mi viene comunicata copia del telegramma spedito dal Direttorio del fascio alla famiglia del defunto. Esso dice: “Quercianellesi tutti volgono sguardo dolente, pensiero mesto scoglio Romito. Spirito grande statista, che predilesse Quercianella per suo riposo vita e morte, aleggera' su noi, spronera' tutti compiere ora e sempre proprio dovere - Direttorio del Fascio”. E Quercianella questa vera perla del Tirreno, che ha legato il suo nome a quello dell’illustre scomparso, sente intensamente tutto il cordoglio per la fine di Colui che alle sue aure miti veniva a ritemprarsi per affrontare nuove lotte, per affinare la mente negli studi e nelle meditazioni profonde. Nel crocchio in attesa si parla di Lui, di cui si attende la salma di momento in momento: si scruta la strada serpeggiante sui monti per vedere quando apparisca il mesto convoglio, si evocano ricordi, aneddoti. Intanto giunge in automobile il Commissario di Pubblica Sicurezza di Ardenza dottor Nardi che si unisce alla comitiva.
Viene fra noi il custode del Castello, sig. Antonio Barbagelata, bella figura di campagnolo, che da piu' di vent’anni era al servizio del barone. Egli ci dice quanto lo scomparso fosse buono, nella sua scontrosa riservatezza, il bene che faceva, la bonta', l’affabilita' che dimostrava verso coloro i quali avevano l’onore di avvicinarlo. Parliamo con una gentile giovinetta, Alda, figlia del Barbagelata, che il barone prediligeva. Essa ci dice che solo diciotto giorni fa Egli era in questa sua prediletta dimora, e ricorda la giovinetta di averlo veduto sereno e tranquillo nella grotta ove egli aveva predisposto la sua tomba, curare il macigno granitico e lustrarlo ed ungerlo con vasellina. Vi era forse in quella serenita' un presagio della prossima fine?
Passano vari camions carichi di soldati del 7° reggimento artiglieria da campagna che si recano ai tiri sui monti circostanti; passano varie automobili dirette sulla via di Roma: una si ferma al cancello della villa. Ne scende una dama vestita di nero: e' la principessa Borghese. Si apre il cancello; la dama entra nel parco; si richiude il cancello.
 
 
 
 

GIUNGE LA SALMA

Un lontano rumore di motori ci avverte che il convoglio si approssima. Sono le 9. Lo vediamo spuntare dalla voltata di Calafuria; si avvicina sempre di piu'; la squadra dei fascisti si pone sull’attenti; i varii fotografi prendono posizione per far scattare gli obiettivi delle loro macchine. Si apre ancora il cancello della villa, ed il carro contenente la salma e le due automobili che lo seguono entrano nel viale. I fascisti chiedono al nipote dell’Estinto, barone di Montanara, il permesso di poter eseguire essi stessi a spalla il trasporto della cassa contenente la Salma fino alla grotta; il permesso viene accordato e viene pure concesso ai rappresentanti della stampa e al dottor Nardi di seguirli. Entriamo nei viali, sulla spiazzata del carro viene tolta dai fascisti la cassa funebre sempre ricoperta dal drappo tricolore e con questa in spalla si avviano per il ripido sentiero che conduce alla grotta. Opera difficile e faticosa per l’angustia dello spazio in discesa ed i numerosi scalini. Ma i forti giovani disimpegnano l’onorifico incarico con abilita' e sicurezza.
 
 

LA GROTTA FUNEBRE

Il luogo che il barone Sonnino si e' scelto per ultima dimora e' di una grande suggestione. Consiste in una grotta quasi a picco sul mare, scavata nel vivo masso, a circa una cinquantina di metri sotto il Castello, ed ha l’apertura verso l'immensita' del Tirreno. La Gorgona e la Capraia coi loro profili netti interrompono la grande distesa azzurra; a sinistra in fondo, si disegna vagamente il profilo frastagliato dell’Elba. Quale gloria di luce! Sia che il libeccio sferzi infuriato la montagna, sia che il sole l’ammanti di raggi dorati, sia che la notte la ricopra di mistero, e' sempre uno spettacolo sublime che costringe alla meditazione, che trasporta l’animo in regioni ove si sente piu' puro, piu' umile, piu' buono!
Lontano da ogni sguardo profano, in faccia alla natura, il grande spirito ha creduto di trovare il riposo piu' degno. Egli che fu chiamato il “taciturno”, ha voluto anche nella morte essere un solitario; ma non per appartarsi, non per fuggire alla Patria; ma per poterla ancora vigilare ed amare, tutto raccolto in se', in una semplicita' mistica, come da un ara di fede.
Da ventun’anno egli si e' preparato il blocco granitico, che ha fatto disporre in mezzo alla grotta; da ventun’anno egli lo ha contemplato senza timore, ed ha voluto che non vi fosse inciso che un nome e due date: quella della nascita e quella della morte.
Per Lui infatti ogni epigrafe e' superflua: egli e' nella storia della patria Egli e', e sara' sempre, nel cuore di quanti amano la patria. La tradizione dice che in questa grotta vivesse molti anni fa un pio romito - donde il nome del monte - Essa torna ora ad essere animata, ed e' una tomba che lo anima.
 
 
 

L'ESTREMO SALUTO

Il mesto corteo giunge nella grotta seguito dai parenti, amici e pubblicisti. Il coperchio che deve chiudere la rettangolare semplicissima tomba granitica e che pesa parecchi quintali e' sostenuto in alto da forti corde e catene fissate ad una specie di immenso cavalletto formato da tre grossi tronchi di pino. I fascisti depongono a terra il feretro; viene sollevata la bandiera tricolore ed apparisce la cassa esterna di noce lucido con varii ornamenti.
Sulla parte superiore del coperchio un crocifisso d’ottone, sulla posteriore una targhetta col nome dell’estinto, la data della nascita e quella della morte. Ma nasce un dubbio: che il vano scavato nel granito non riesce a contenere in lunghezza la cassa. Si prendono le misure. Infatti la cassa e' piu' lunga di sette-otto centimetri. Come rimediare? Non c'e' che assottigliare il massiccio di granito, scalpellandolo internamente nelle due pareti estreme.
Si dispone subito per la ricerca degli scalpellini e degli arnesi; ma e' una operazione che non puo' essere fatta immediatamente e che, data la durezza del blocco, richiede del tempo.
Bisogna dunque rinunziare a veder collocare nella tomba il feretro e calarvi sopra la pesante lastra. L’operazione verra' proseguita con comodo; ed intanto il feretro rimarra' nella grotta, esposto ancora per qualche ora alla luce divina del giorno, a quella pia delle stelle. Il tributo d’affetto dei presenti si rinnova; si da' l’estremo saluto alla spoglia gloriosa.
La principessa Borghese, affranta dal dolore, depone sulla cassa un ramo di quercia: e' un momento di indicibile commozione per tutti. I fascisti riprendono la cassa in spalla e la collocano in disparte nella grotta, in luogo riparato dalle intemperie, e la salutano silenziosamente tre volte col gesto romano. Il cannone degli artiglieri tuona in lontananza per le esercitazioni; ma anche quel rombo sembra un saluto di gloria.
La cerimonia per oggi e' terminata; la salma del barone Sonnino sara' chiusa definitivamente nella sua monolitica tomba alla presenza di pochi familiari. Il destino ch’Egli volle si compie intero. Ma Egli vivra' ancora come uno dei grandi spiriti della Patria: e' stata la giovinezza italiana che l’ha trasportato fino al luogo ch’Egli ha scelto per sua estrema dimora, in un limpido mattino di Novembre, cui il sole dava tepori primaverili.

(“Il Telegrafo”, Lunedi' 27 Novembre 1922)
 
 
 
 

LA TOMBA DI SIDNEY SONNINO

Il Castello del Romito sorge in prossimita' di Quercianella, la piu' bella insenatura del nostro Tirreno, fra l’Ardenza e Castiglioncello, dove le costruzioni medicee ancora rammentano, con le loro rosse vedette, come quella celebre del Calafuria, un’epoca di barbarie e di bellezza, quando i cignali ancora pascevano nelle macchie del Montenero e i corsari predavano le isole dell’Arcipelago. Il Castello del Romito e' detto cosi' dall’ultimo romito, uno dei tanti forse i quali abitarono nel settecento la regione maremmana e furono poi dispersi da un editto rimasto famoso, romito che s’era scelta a dimora una grotta naturale, o Eolia, come le chiamava la scienza, scavata dai venti nel massiccio di quello sprone, granitico proteso sul mare tutto incoronato di scope, di corbezzole, di lentischi e di sabine. La grotta dove l’ultimo romito abito' pare fino ai primi dell’ 800 e' assai spaziosa e difesa dal libeccio che batte forte su codesta costiera. Nella parete e' un’ insenatura dove il romito dormiva.
La grotta sorge a circa novanta metri a picco sul mare e la veduta n’e' incantevole. Costi' Sidney Sonnino, dopo aver fatto riadattare il Castello senza sfigurare l’antica fisionomia severa, si fece costruire, da vivo, la tomba dove d’ora innanzi dormira', e soleva, stoicamente andare a passarci qualche ora nei pomeriggi estivi, quando era in vacanza e trovarvi riposo assoluto udendo simile ad un’eco dell’infinito, il respiro profondo del mare ansante contro le scogliere di Quercianella, oggi tramutata in un piccolo paradiso terrestre. La tomba si compone di un semplice, enorme monolite di granito rosso di Bave'no. Sopra il Ministro vi aveva fatto incidere in grandi caratteri lapidarii, il proprio nome e la data di nascita, lasciando, naturalmente in bianco quella della morte. Il monumento ha la semplicita' dei cenotafii egizii ed in verita' anche l’uomo che, ormai vi dormira' in eterno, aveva qualche cosa della durezza schematica egizia.
Ma sotto l’apparente rigidezza diplomatica, sotto quello strano aspetto indecifrabile come un geroglifico, palpitava un’anima, che stanca probabilmente dei lunghi studi dai quali era stata condotta alla negazione, cercava lo spirito dell’infinito, anelava al senso dell’eternita'. Era in codesti momenti di sosta dalla grande lotta sociale che il finanziere domandava alla selva e alle onde il segreto della gioia pura e senza confini. Allora i quercianellesi si additavano la figura dello statista che in maniche di camicia, remigava sull’azzurro Tirreno; ma soltanto le rare lepri, rimaste al colle del Romito, e gli uccelli cinguettanti fra i lentischi sapevano che nella grotta antichissima, un uomo dai capelli canuti, quando il sole si tuffava nel mare di lacca, si godeva la bellezza della vita appoggiato al sasso del proprio sepolcro.
(“La Nazione”, Novembre 1922)